Santi & Sposi

AGOSTO

Sommario

1 AGOSTO.. 5

2 AGOSTO.. 5

Beato Zeffirino (Ceferino) Gimenez Malla Martire. 5

Beata Giovanna d'Aza Madre di S. Domenico. 7

3 AGOSTO.. 9

4 AGOSTO.. 9

5 AGOSTO.. 9

Santa Nonna Sposa. 9

Santi Vardan e compagni Martiri in Armenia. 10

Santa Margherita da Cesolo (la Picena) 12

6 AGOSTO.. 12

Sant'Ormisda Papa. 12

Sant'Anna Paleologina (Giovanna di Savoia) Imperatrice bizantina. 13

Beato Carlo Lopez Vidal Laico coniugato, martire. 14

7 AGOSTO.. 14

Sant'Irene la Giovane Imperatrice d’Oriente. 14

8 AGOSTO.. 16

Beato Giovanni Felton Laico coniugato, martire. 16

Beato Antero Mateo Garcia Ferroviere, martire. 16

9 AGOSTO.. 17

Beato Francesco Jagerstatter Laico, martire. 17

San Costantino VI Imperatore d’Oriente. 19

10 AGOSTO.. 21

Santa Plettrude VII-VIII secolo. 21

Sant'Erico (Erik) IV Re di Danimarca, martire. 22

11 AGOSTO.. 22

Beati Raffale Alonso Gutierrez e Carlo Diaz Gandia Padri di famiglia, martiri 22

12 AGOSTO.. 23

Santa Giovanna Francesca de Chantal Religiosa. 23

13 AGOSTO.. 26

Sant'Irene d'Ungheria Imperatrice. 26

Santa Radegonda Regina di Francia. 27

San Sventiboldo Re di Lorena. 28

14 AGOSTO.. 29

15 AGOSTO.. 29

Sant'Emanuele Morales Martire Messicano. 29

Beato Aimone Taparelli Sacerdote domenicano. 30

San Costantino Brancoveanu Principe di Valacchia, martire. 32

16 AGOSTO.. 34

Santo Stefano di Ungheria Re. 34

Beati Simone e Maddalena Bokusai Kyota, Tommaso e Maria Gengoro, e Giacomo Gengoro Martiri 37

Santa Serena di Roma Imperatrice. 38

17 AGOSTO.. 38

18 AGOSTO.. 38

Sant'Elena Madre di Costantino. 38

19 AGOSTO.. 41

Santa Sara Moglie di Abramo. 41

San Sebaldo (Sinibaldo) Eremita. 44

20 AGOSTO.. 45

San Zaccheo il Pubblicano. 45

21 AGOSTO.. 46

San Sidonio Apollinare Vescovo di Clermont 46

Santa Ciriaca di Roma. 47

Beata Vittoria Rasoamanarivo Vedova e principessa del Madagascar. 48

Santi Bassa, Teognio, Agapio e Pisto Martiri 50

22 AGOSTO.. 50

Beato Tommaso Percy Conte di Northumbria, martire. 50

23 AGOSTO.. 51

24 AGOSTO.. 51

25 AGOSTO.. 52

San Ludovico (Luigi IX) Re di Francia. 52

26 AGOSTO.. 61

Beati Luigi Beltrame Quattrocchi e Maria Corsini Sposi 61

27 AGOSTO.. 64

Santa Monica Madre di S. Agostino. 64

Beata Francesca Pinzokere Martire. 67

Santi Marcellino, Mannea e compagni Sposi e martiri 67

28 AGOSTO.. 67

Sant'Agostino Vescovo e dottore della Chiesa. 67

Beati Giovanni Battista Faubel Cano e Arturo Ros Montalt Padri di famiglia, martiri 72

Santa Gioacchina De Vedruna Vedova e fondatrice. 73

Santi Luigi Martin e Zelia Guerin Genitori di S. Teresa di Gesù Bambino. 75

29 AGOSTO.. 78

Beato Edmondo Ignazio Rice Fondatore. 78

Beato Riccardo Herst Martire. 81

Santa Sabina Martire. 82

San Sebbi Re della Sassonia Orientale. 83

30 AGOSTO.. 84

Santa Margherita Ward Martire in Inghilterra. 84

Sant'Alessandro Nevskij Granprincipe di Novgorod. 85

31 AGOSTO.. 85

 


 

 

1 AGOSTO

 

 

2 AGOSTO

Oggi abbiamo un Santo sposato particolare... uno zingaro, l'unico finora beato, sposato prima illegittimamente al modo gitano e poi regolarizzato. Grande figura de secolo scorso. Andiamo poi a conoscere la santa madre di un grande fondatore, San Domenico.

Beato Zeffirino (Ceferino) Gimenez Malla Martire

 Benavent de Sangría, Spagna, 26 agosto 1861 - Barbastro, Spagna, 2 agosto 1936

Uno zingaro sugli altari! Ceferino Giménez Malla detto "El Pelé", nato a Benavent de Lérida nel 1861 e fucilato presso il cimitero di Barbastro nell'estate del 1936. Nei primi mesi della guerra civile che insanguinò la Spagna fu arrestato per aver difeso un sacerdote; al momento dell'esecuzione stringeva tra le mani la corona del rosario. È il primo zingaro beato nella storia della Chiesa, proclamato il 4 maggio 1997 da Giovanni Paolo II a Roma.

Martirologio Romano: Nello stesso luogo (Barbastro in Spagna), beato Zefirino Giménez Malla, martire, che, di origine zingara, si adoperò per promuovere la pace e la concordia tra il suo popolo e i vicini, finché fu arrestato in quella stessa persecuzione mentre difendeva un sacerdote trascinato per le vie dai miliziani. Rinchiuso in carcere e condotto infine al cimitero, fu fucilato con la corona del Rosario tra le mani, ponendo così fine al suo pellegrinaggio terreno.

 

È un analfabeta, che si porta dietro il marchio indelebile di essere un gitano, cioè uno zingaro, “malgrado” il quale è stato elevato alla gloria degli altari. Forse, a dire il vero, più in conseguenza della morte  che ha subito, che non della sua dirittura morale e della sua integrità di vita, anche se queste, da sole, già gli avrebbero meritato una corona di gloria.  Ceferino Jiménez Malla nasce in Spagna nel 1861, non si sa bene dove e neppure precisamente quando, e fin da bambino conosce la precarietà della vita nomade e la povertà autentica.  Fa il panieraio, tesse cioè ceste e canestri, che poi vende di villaggio in villaggio, ma le bocche da sfamare sono tante, anche perché papà ha pensato bene di andar a vivere con un’altra donna, lasciando la prima famiglia nell’autentica indigenza. A 18 anni è già sposato alla maniera gitana con Teresa Jiménez: un matrimonio felice, anche se privo di figli, che durerà più di 40 anni. Le testimonianze concordano: le condizioni di estrema povertà non riescono a fare di lui un ladro o un approfittatore. L’onestà che gli viene da tutti riconosciuta finisce per procurargli un’autorevolezza, una  superiorità morale grazie alla quale acquista un ruolo di “capo” dei gitani di Barbastro e del circondario: gli chiedono consigli e lo fanno intervenire da paciere nelle liti famigliari, nelle controversie tra gitani e addirittura nelle dispute tra questi e le persone del luogo. La svolta economica della sua vita avviene per un atto di generosità: un giorno si carica sulle spalle e riporta a casa, incurante del pericolo di contagio, un ricco possidente di Barbastro, malato di tubercolosi, svenuto per strada a causa di uno sbocco di sangue. La famiglia di questi lo ricompensa con una forte somma, con la quale Zeffirino, da tutti soprannominato “El Pelè”, intraprende un redditizio commercio di muli che gli fa raggiungere un invidiabile livello di benessere. Anche nel commercio e nell’improvvisa agiatezza si rivela però limpido ed onesto, fino allo scrupolo: chi acquista da lui sa che non avrà sorprese, perché gli eventuali difetti delle sue bestie sono messi ben in evidenza, non ammettendo frodi neppure dagli altri gitani. Eppure, un uomo così viene un giorno incarcerato perché due animali che ha comprato si sono rivelati rubati: elemento più che sufficiente per accusarlo di ricettazione o perlomeno di incauto acquisto. Pesano sul suo arresto e sul processo, certamente, la sua origine gitana ed il pregiudizio razziale che fa di ogni zingaro un potenziale disonesto. Assolto per aver dimostrato la sua buona fede e la sua completa estraneità al furto, il Pelè continua la sua redditizia attività commerciale, nonostante la quale si riduce in povertà: ha infatti le mani bucate perché soccorre chiunque è nel bisogno ed aiuta i poveri, il più delle volte di nascosto dalla moglie che non condivide questa sua prodigalità. Prima di tutto, però, il Pelè è un cristiano convinto, che della sua fede non fa mistero: sempre con la corona del rosario in mano, attivissimo nelle associazioni religiose, impegnato nell’adorazione notturna e nella San Vincenzo, dalla messa e dalla comunione quotidiana soprattutto da quando, regolarizzando la sua posizione anche con il matrimonio religioso, ha potuto accostarsi ai sacramenti. La rivoluzione del 1936 che scatena l’odio antireligioso, non riesce a fargli mutare minimamente la sua coraggiosa professione di fede: difatti lo arrestano nel mese di luglio, perché ha difeso un prete e perché in tasca gli han trovato la corona del rosario. Che non posa più, neppure quando amici influenti gli promettono l’immediata scarcerazione se soltanto evita di farsi vedere con la corona in mano. Lo fucilano ai primi di agosto, ancora e sempre con il rosario in bella vista, insieme al suo vescovo con il quale è stato beatificato da Giovanni Paolo II nel 1997, primo e finora unico zingaro ad essere portato sugli altari. Nel 2011, a 150 anni dalla nascita ed a 75 dal martirio, si sono moltiplicate le iniziative, compreso un audiolibro, per lui, che non sapeva leggere, ma che aveva imparato molto bene a pregare.

Autore: Gianpiero Pettiti

 

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Il nome di battesimo, Ceferino, è la forma spagnola di Zefirino, il santo del giorno in cui è nato. Ceferino Jiménez Malla, detto El Pelé, è il primo zingaro che la Chiesa pone sugli altari. Nasce nella povertà, che diventa miseria quando suo padre abbandona la famiglia per andarsene con un’altra donna. Ceferino non va a scuola, aiuta in casa come può (fa e vende ceste di vimini) e sui vent’anni si trasferisce a Barbastro, sposando Teresa Jiménez Castro al modo zingaro, senza rito religioso (che sarà celebrato soltanto nel 1912). Non avendo figli, adottano Pepita, una nipote di Teresa.

Figura imponente, espertissimo di cavalli e muli, diventa un mediatore stimato per la sincerità (dote piuttosto rara, in questo mestiere). Ma poi si fa negoziante in proprio, per un gesto che incanta tutta Barbastro: un potente del luogo, malato di tbc, sviene un giorno per strada, tra sbocchi di sangue che fanno  scappare tutti, anche chi precedentemente lo riveriva. E soltanto lui, Ceferino, senza paura, accorre, lo aiuta e lo porta sulle spalle a casa. La ricca famiglia del malato lo ringrazia con una somma di denaro, e lui può così avviare un prospero commercio.

Diventa un notabile. Ma soprattutto pratica anche sulle piazze la fede, che ha raggiunto completamente da adulto. Prega per strada, con la corona del Rosario in mano. Gira d’inverno a soccorrere gli zingari più poveri, ma non solo loro. Tutti sono “prossimo” per lui, che costruisce giorno per giorno il capolavoro della sua vita di credente, convalidata dalle opere. Analfabeta, ha ugualmente “letto” gli ammonimenti dell’apostolo Paolo ai Corinzi, e realizza in sé la carità che "tutto copre, tutto crede, tutto sopporta".

E pure le calunnie sopporta, accusato falsamente di furto ("È uno zingaro...") e poi trionfalmente assolto. Torreggia nei gruppi dei “Giovedì eucaristici”, della San Vincenzo, del Terz’Ordine francescano... tutti lo vogliono, questo zingaro comunicatore di speranza, questo promotore di gioia. Ancora in vita, c’è chi già lo chiama “santo”.

Luglio 1936, guerra civile in Spagna. Ceferino è arrestato da un reparto di anarchici perché, a 75 anni, si è lanciato tra loro per liberare un prete che portavano via. (C’è una strage di clero a Barbastro).

E lui prega a voce alta, a testa alta, non chiede pietà. Quando lo fucilano, alcuni giorni dopo presso il cimitero, l’ultimo suo grido è "Viva Cristo Re!". L’ultimo gesto è quello della mano che tiene alta la coroncina del Rosario come una bandiera. L’indomani si ordina agli zingari di scavare una fossa comune per tutti i fucilati, tra cui c’è El Pelé. Poi sui corpi si butta calce viva. Per questo non c’è la sua tomba.

Il 4 maggio 1997, in Roma, alla presenza di migliaia di zingari, Giovanni Paolo II proclama Ceferino beato. E con lui è beatificato il vescovo Florentino Asensio, ucciso come lo zingaro nell’estate del 1936.

 

Autore: Domenico Agasso              Fonte:Famiglia Cristiana

 

Beata Giovanna d'Aza Madre di S. Domenico

 Aza (Spagna), 1140 circa – Caleruega (Spagna), 1190/1200 circa

Discendente della nobiltà castigliana, nata ad Aza, vide i suoi tre figli ascendere l’altare: Antonio, Mannes e Domenico. Quest’ultimo sembra aver occupato un posto di predilezione nel suo cuore: fu ottenuto e atteso nella più fervorosa preghiera, preannunziato alla mamma come un fremente segugio che stringe fra i denti una fiaccola con la quale illuminerà e incendierà il mondo. Giovanna morì a Caleruega intorno al 1200.

Martirologio Romano: A Caleruega sempre nella Castiglia, commemorazione della beata Giovanna, madre di san Domenico, che, piena di fede, usò grande misericordia verso i miseri e gli afflitti.

 

 

 

La Chiesa ci presenta svariate figure di sante madri spesso associate al culto di uno o più figli: è per esempio il caso degli imperatori Elena e Costantino I il Grande ed Irene e Costantino VI, nonchè di Monica e del celebre Agostino d’Ippona, Bianca di Castiglia e Luigi IX di Francia, Margherita Occhiena e Giovanni Bosco. Il caso preso oggi in considerazione è assai simile a  quest’ultimo, in quanto trattasi della madre di un grande fondatore, San Domenico.

Giovanna fu dunque santa ma al tempo stesso madre di santi, ispiratrice di santità. Nacque ad Aza nel 1140 circa, discendente della nobiltà castigliana, figlia del Gran Maresciallo di Castiglia Don Garcia d’Aza, tutore del Re Alfonso VIII. Andò in sposa a Felice di Guzman, Governatore del borgo di Galaruega, e da questa unione nacquero ben tre figli che poi presero tutti la via del sacerdozio. Il primo, Antonio, dedicò l’intera sua vita al servizio dei malati in un ospedale. Il secondo, il beato Mannes, è invece colui che avrebbe poi cooperato con il fratello minore. Quest’ultimo, il grande patriarca San Domenico, terzo ed ultimo figlio, nacque il 24 giugno 1170, venne a rallegrare l’animo di Giovanna che, non più giovanissima, aveva fatto un pellegrinaggio all’abbazia benedettina di Silos per invocare sulla tomba del fondatore, San Domenico di Silos, protettore delle partorienti, la grazia di un altro figlio che perpetuasse il nome della famiglia.

Ma il Signore concede sempre infinitamente più di quanto gli venga chiesto e volle perciò così darle attraverso Domenico una posterità assai più gloriosa di quella sanguinea. Fondò infatti l’Ordine dei Frati Predicatori e, martello degli eretici e colonna della Chiesa medioevale, fu “santo atleta” della fede cristiana, come amò definirlo Dante. Ma anche entrambi i genitori di Domenico meritarono di essere citati da Dante nel dodicesimo canto del “Paradiso”: “Oh padre suo veramente Felice! Oh madre sua veramente Giovanna, Se, interpretata, val come si dice!”. Quest’ultima esclamazione allude all’etimologia ebraica del nome Giovanni/a che significa “il Signore è la sua grazia”. La madre di Domenico, secondo Dante, fu dunque veramente “Giovanna”, perché trovò pienamente la propria grazia nel Signore che le fece dono di tale figlio.

Proprio mentre Giovanna era in attesa di Domenico, sognò una notte di portare nel grembo un cane, che poi fuggì da lei tenendo tra i denti una torcia accesa. La madrina invece vide il futuro figlioccio con una stella sulla fronte. All’insaputa delle due il cane simboleggiava la fedeltà e la torcia l’ardore della carità con la quale San Domenico avrebbe incendiato il mondo, mentre la stella significava lo splendore della verità con cui il nascituro avrebbe rischiarato le menti offuscate dall’errore. Il cane, la torcia e la stella divennero così i simboli di San Domenico e dei frati dell’ordine da lui fondato, vestiti di bianco e nero, cani fedeli a Dio, segugi dell’errore.

Giovanna si dimostrò sempre quale angelo tutelare della sua casa: prima maestra dei figli, li educò alla santità e ad una vita virtuosa. Avviò Domenico alla formazione intellettuale ed alla perfezione spirituale, affidandolo ancora bambino ad un suo fratello arciprete. Nonostante ella avesse sperato di poter coccolare un nipotino, non si oppose al disegno della Provvidenza ed assecondò i precocissimi segni della vocazione del figlio. Dio non tardò a mostrarle gli splendidi frutti di quei semi da lei piantati nei loro cuori con tanto amore. Ma dopo i figli, ecco comparire i poveri al secondo posto nei confronti dei quali ebbe le più affettuose cure, a tal punto che a volte capitò di vedere miracolosamente moltiplicate le sue elemosine quando non erano sufficienti. Questi straordinari segni della Divina Provvidenza dimostrarono agli occhi di tutti l’altezza di perfezione e d’intimità con Dio a cui era giunta Giovanna.

Per il resto non si posseggono ulteriori dettagliate notizie storiche sulla vita di questa donna. Quando morì a Calaruega, tra il 1190 ed il 1200, suo figlio Domenico si era ormai allontanato da lei proprio come il cane del sogno, ma la sua torcia luminosa cominciava a risplendere nel mondo. I malati, i poveri e gli afflitti presero a rivolgersi spontaneamente a lei invocandola come una santa ai piedi delle sue reliquie, conservate nella chiesa parrocchiale, ed ottenendo così grazie e protezione. Il pontefice Leone XII confermò il culto “ab Immemorabili” della Beata Giovanna d’Aza il 1° ottobre 1828. Con la nuova legislazione in materia di canonizzazioni, la beata madre di San Domenico potrà essere riconosciuta come “santa” e proposta alla venerazione ed all’imitazione delle spose di tutto il mondo, cosiccome le sue beate compatriote Beatrice de Suabia, moglie del re San Ferdinando III, e Maria Toribia de la Cabeza, moglie di Sant’Isidoro l’Agricoltore.

Autore: Fabio Arduino

 

 

3 AGOSTO

 

 

4 AGOSTO

 

 

5 AGOSTO

Dopo due giorni di assenza di santi sposi oggi riecco una bella squadra: Iniziamo con Santa Nonna, moglie del vescovo San Gregorio e madre dei santi Gregorio Nazianzeno il Teologo, Cesare e Gorgonia. Abbiamo poi Vardan, nipote di S. Isacco e padre di Santa Susanna. Conosciamo infine Santa Margherita, detta la "scalza", sposa e madre.

Santa Nonna Sposa

 m. 5 agosto 374

In data odierna il Martyrologium Romanum commemora Santa Nonna, sposa del vescovo San Gregorio il Vecchio. Dai due nacquero vari figli tra i quali spiccano i santi Gregorio Nazianzeno il Teologo, Cesare e Gorgonia. Il suo culto ha centro presso Nazianzo in Cappadocia.

Martirologio Romano: A Nazianzo in Cappadocia, nell’odierna Turchia, santa Nonna, che fu moglie del santo vescovo Gregorio il Vecchio e madre dei santi Gregorio il Teologo, Cesario e Gorgonia.

 

Santa Nonna nacque verso la fine del III secolo e ricevette dai genitori un’educazione cristiana. Sposato un membro della setta giudeo-pagana degli ipsistari, cioè adoratori dell’Altissimo, non tardò a convertirlo al cristianesimo. Questi, che divenne poi prete ed anche vescovo, in quanto in Oriente era in uso la prassi del clero uxorato, è conosciuto e venerato come San Gregorio il Vecchio.

La santità di cotanta coppia non poté non contagiare anche la prole, cosicché anche tre dei loro figli hanno meritato ufficialmente l’aureola: innanzitutto il figlio maggiore San Gregorio Nazianzeno (2 gennaio), dottore della Chiesa, che nei suoi scritti ricordò più volte la vita virtuosa della madre; ma anche Santa Gorgonia (9 dicembre), sposata con tre figli, e San Cesario (25 febbraio), medico.

Nonna sopravvisse di alcuni mesi al marito e si narra che morì in età assai avanzata. Centro del suo culto è costituito dalla città di Nazianzo in Cappadocia ed il Martyrologium Romanum la commemora al 5 agosto, anniversario della nascita al Cielo avvenuta nel 374.

La santità diffusasi così abbondantemente in questa famiglia, Chiesa domestica, viene talvolta citata come esempio e prova concreta degli effetti benefici che possono derivare da abitudini diverse da quelle divenute ormai tradizione nella Chiesa latina. Non è comunque questo l’unico caso di santi commemorati da martirologio cattolico che abbiano coniugato la vita coniugale con il ministero ordinato: si ricordano per esempio i Santi Montano e Massima, il vescovo San Paolino da Nola ed il parroco greco-cattolico ucraino Omaljan Kovc, sposato e padre di sei figli, martire del XX secolo, beatificato da Giovanni Paolo II.

Autore: Fabio Arduino

 

Santi Vardan e compagni Martiri in Armenia

 V secolo

Vardan principe della famiglia Mamikonian era figlio di Hamazasp e di Dustr, figlia di s. Isacco, katholikòs armeno. Fu educato dal suo santo nonno nella pietà e nella fede cristiana, e specialmente nella conoscenza della Sacra Scrittura, come testimonia lo storiografo Lazzaro Parpeci. A sua volta, come padre di famiglia, educò cristianamente l’unica sua figlia, Susanna, che divenne martire e santa. Non minore era il suo coraggio e la bravura nell’arte militare; infatti combatté per tutta la sua vita nell’esercito persiano sul fronte orientale, meritando l’ammirazione dello stesso re persiano.

Però ciò che di Vardan fece il santo martire fu la sua morte sul campo di Avarair, ove insieme con i suoi compagni combatté e morì per difendere la fede cristiana e la libertà di conservarla in Armenia, contro i Persiani, che volevano costringere l’Armenia ad abbracciare la religione mazdeista. L’Armenia, divisa politicamente tra l’impero bizantino e quello persiano nel 387, era soggetta ad entrambi gli imperi. La maggior parte si trovava sotto il dominio persiano, benché fosse governata da principi armeni, possedendo pure un proprio esercito. Yazdgerd II (438-459) istigato dal suo primo ministro Mihrnarsch, ebbe l’idea di convertire gli Armeni, come pure gli Iberi o Georgiani, e gli Aluani, alla religione dello Stato, perché pensava di poterli rendere più soggetti e docili al suo regno. Con una lettera che arrivò in Armenia all’inizio dell’anno 449, egli invitava tutti i principi armeni ad accettare  la religione zoroastriana. I capi delle famiglie nobili si radunarono, insieme ai vescovi e ad altri ecclesiastici, ad Artasat, antica capitale dell’Armenia per esaminare la proposta del re sassanide. Tutti furono unanimi nel rispondere negativamente alla proposta di Yazdgerd il quale, avutra la risposta, s’infuriò e diede ordine di chiamare tutti i principi armeni alla sua corte. Se ne radunarono una quindicina, tra i quali Vardan, e arrivati alla corte il 12 aprile dell’anno 450, il sabato santo, furono trattai da ribelli e non con il consueto protocollo. Il re ordinò a tutti di presentarsi il mattino seguente alla corte per adorare insieme con lui il sole. Vardan rispose di non poter accettare l’ordine del re poiché non poteva rinnegare la sua fede cristiana per rispetto umano, mentre gli altri chiesero di pensarci per poter prendere una decisione in una questione così delicata. Ottenuto il permesso, i principi armeni si radunarono per consigliarsi. Alcuni proposero di cedere al re con un atto esterno, per poter ritornare in patria ed ivi organizzare la resistenza; poiché non accettando l’ordine reale, non sarebbero potuti tornare in Armenia, ed il popolo, rimasto senza capi, sarebbe stato in balìa dell’esercito persiano.

La proposta fu accettata da tutti eccetto da Vardan il quale era decisamente contrario a qualunque forma di rinnegamento della fede. Grande fu la pressione dei compagni per fargli accettare la loro proposta; citarono perfino le parole di s. Paolo che di Cristo disse: “Eum qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit” (II Cor. 5, 21) e aggiunsero: “Non sei migliore di Paolo, che voleva essere maledetto per salvare i suoi fratelli. Se per un momento accettassi di simulare esternamente l’atto di adorazione, potremmo ritornare in patria, ed ivi faremmo penitenza e difenderemmo il nostro popolo”.

Alla fine riuscirono a strappare il consenso di Vardan e si presentarono al re per adorare il sole. Grande fu la gioia del re e della corte persiana, che li colmò di doni e di onori. Però dovettero accettare la compagnia dei magi, che insieme a loro sarebbero dovuti andare in Armenia per installare i templi del culto del fuoco, ed istruire nella religione zoroastriana le famiglie dei magnati ed il popolo. La triste notizia del rinnegamento  dei principi precedette il loro arrivo in Armenia: i familiari chiusero le porte delle case davanti ad essi, e non li accettarono senza che prima fossero andati a fare penitenza. Vardan radunò i suoi e spiegò il motivo per cui aveva ceduto alle insistenze dei compagni, decidendo quindi di abbandonare la propria casa, per andare in territorio bizantino e vivere lì in penitenza per tutta la vita. Ma quando la notizia della decisione di Vardan si divulgò, gli altri principi armeni si affrettarono a farlo desistere dal suo progetto; perché egli era il generale dell’esercito armeno, e senza la sua presenza sarebbe stato difficile riunire tutti e formare una resistenza contro i Persiani. Una delegazione di sacerdoti e di amici si recò presso Vardan per dissuaderlo e trattenerlo; egli allora accettò l’invito a condizione che tutti accettassero di combattere fino alla morte per difendere la libertà della religione cristiana e per la Chiesa. I principi radunatisi accettarono la proposta di Vardan, promettendo con giuramento sopra il Vangelo di combattere finno alla morte per la difesa della fede cristiana.

Intanto era arrivato il capodanno del calendario armeno (il 6 agosto dell’anno 450), i magi, secondo quanto era stato stabilito, si accinsero ad entrare nella chiesa per deporvi il fuoco sacro; ma s. Leonzio, che era il preposito, si oppose con fermezza, ed il popolo, armatosi di bastoni, li cacciò con veemenza. L’esercito armeno sotto la guida di Vardan, che aveva l’ordine di difendere i magi, non si mosse, il capo di essi se ne lamentò presso il re. Yazdgerd capì che i principi lo avevano ingannato, ordinò allora al suo generale di occupare l’Armenia con la forza ed imporre la sua volontà. Intanto Vardan ed i suoi compagni si preparavano a difenderla e avevano mandato dei messaggeri all’imperatore Teodosio II, per chiedere aiuto. I messaggeri arrivarono quando questi era già morto (450) e il suo successore, Marciano, non accettò la proposta degli Armeni per non dare motivo ai Persiani di scatenare una guerra contro l’impero.

La notizia dell’arrivo di un esercito persiano di centoventimila uomini con numerosi elefanti, convinse Vardan a radunare i suoi; formò un esercito di sessantaseimila uomini, e si accampò ad Avarair, a Sud del monte Ararat. Era l’anno 451, il venerdì antecedente la Pentecoste. Il katholicos Giuseppe, e molti vescovi e sacerdoti erano nell’accampamento ad incoraggiare ed assistere i soldati. Tutta la notte fu una preparazione spirituale; i sacerdoti battezzarono i catecumeni, amministrarono il sacramento della penitenza, celebrarono la messa, e tutti si comunicarono, come il “giorno della Pasqua” dice lo storiografo Eliseo, uno dei presenti. Vardan tenne un discorso rammentando la loro promessa di combattere per difender ela fede di Cristo e di morire se necessario, per cancellare la macchia del rinnegamento. Tutti risposero a gran voce: “Che la nostra morte sia conforme alla morte dei giusti, e lo spargimento del nostro sangue a quello dei santi martiri. Ed Iddio si compiaccia del nostro volontario olocausto, e non lasci la sua Chiesa nelle mani dei pagani”. Con queste parole, riportate dal surricordato storiografo Eliseo, essi si disponevano al martirio. Poiché era evidente che in una battaglia con forze disuguali, la vittoria militare sarebbe stata dei più forti, la metà dell’esercito armeno con a capo una decina di principi, preferendo la gloria terrestre a quella del martirio disertò il campo. Quelli che rimasero fedeli a Vardan e caddero nella battaglia di Avarair, certamente si immolarono volontariamente per la difesa della fede in Cristo, che i Persiani volevano sopprimere con la forza militare. Era quindi fallace l’obiezione di alcuni teologi del sec. XVII, che osarono metter in dubbio il martirio di Vardan e dei suoi compagni, volendo togliere perfino dal calendario il loro nome. Mentre il sommo teologo, s. Tommaso, aveva già risolto quella stessa obiezione, dicendo: “Et ideo cum quis propter bonum commune, non relatum ad Cristum, mortem sustinet, aureolam non meretur. Sed si hoc referatur ad Cristum, aureolam merebitur et martyr erit; utpote si Rempublicam defendat ab hostium impugnatione, qui fidem Christi corrumpere moliuntur, et in tali defensione mortem sustinet”. La festa di questi martiri si celebrava in Armenia il 20 hrotis (= 5 agosto).

Autore: Paolo Ananiam           Fonte:Enciclopedia dei Santi

 

Santa Margherita da Cesolo (la Picena)

 m. 5 agosto 1395

Martirologio Romano: Presso San Severino sempre nelle Marche, santa Margherita, vedova.

 

Nel 1325 a Cesolo, una frazione di San Severino Marche (MC), nacque Santa Margherita, detta la "scalza". I suoi genitori, persone di umili origini e dediti all'agricoltura, le diedero una profonda educazione cristiana. All'età di 15 anni, mentre era intenta a pascolare il gregge, le apparve Gesù sotto le spoglie di un povero pellegrino. Il pellegrino le chiese da mangiare e la piccola le offrì l'unico pane che aveva. Ritornata a casa affamata, chiese alla madre se avesse qualcosa da darle da mangiare, questa le rispose che non aveva nulla. Margherita la pregò di guardare nella madia, la madre acconsentì alla richiesta e con sommo stupore trovò che la madia era piena di una gran quantità di pane da soddisfare i bisogni della famiglia e dei poveri del vicinato. La santa per non contraddire la volontà dei genitori, accettò ad unirsi in matrimonio con un giovane della città. Ebbe una figlia che educò secondo i principi cristiani. Alla morte del marito decise di dedicare tutta la sua vita al servizio dei poveri, alla preghiera e alla penitenza. Per essere vicina alla passione di Cristo si infliggeva terribili penitenze: camminava a piedi nudi per le vie della città (da qui il nome di Margherita la "scalza"), portava il cilicio, dormiva su un letto di sarmenti e poggiava il capo su una pietra. Sopportò una lunga e dolorosa malattia con grande fede e rassegnazione. Il 5 agosto 1395, ormai prossima alla morte, alla richiesta della figlia di lasciarle un ricordo, le si staccò la pelle dei piedi a forma di calzari con l'impronta di tutte le cinque dita, eppoi spirò. Il suo corpo riposa nella chiesa parrocchiale di Cesolo.

Autore: Elisabetta Nardi

 

 

6 AGOSTO

Un altro papa Santo e sposo e padre! E questo ha avuto anche il figlio Silverio che è diventato papa dopo di lui!!!! Abbiamo poi una imperatrice bizantina e infine un laico sposato, martire in Spagna, ucciso durante le persecuzioni cristiane del 1936 al grido di "Cristo Re".

Sant'Ormisda Papa

 Nato a Frosinone - m. 6 agosto 523   

(Papa dal 20/07/514 al 06/08/523)

Nato a Frosinone, fu Papa dal 514 al 523. Ormisda era un vedovo e un diacono romano al momento della sua elezione. Suo figlio divenne a propria volta Papa con il nome di Silverio. Una delle prime preoccupazioni di Papa Ormisda fu di rimuovere le ultime vestigia dello scisma laurenziano a Roma, riaccogliendo nella Chiesa coloro che non si erano ancora riconciliati. Gran parte del suo Pontificato fu dedicata a ricucire lo strappo che esisteva sin dal 484 tra Oriente ed Occidente a causa dello scisma Acaciano. Questo era stato prodotto come risultato del tentativo di Acacio di Costantinopoli di placare i monofisiti. La Chiesa di Costantinopoli venne riunita con Roma nel 519, attraverso la confessione di fede che viene detta Formula di Ormisda. Nell'arte, Ormisda viene raffigurato come un giovane uomo con un cammello. È il santo patrono dei palafrenieri e degli stallieri. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Roma presso san Pietro, deposizione di sant’Ormisda, papa, che, alfiere di pace, riuscì in Oriente a ricomporre lo scisma di Acacio e in Occidente a far rispettare dalle nuove popolazioni i diritti della Chiesa.

 

 Il 20 luglio del 514, un giorno dopo la morte del suo predecessore Simmaco fu proclamato pontefice Ormisda, diacono nativo di Frosinone, sposato con prole, il figlio Silverio divenne a sua volta pontefice.

(Il nome Ormisda deriva dal persiano. Latinizzato in Hormisdas, significa "buono". E’ un nome usato anche al femminile).

L'elezione ebbe esiti unanimi e senza disordini.

Tutto il pontificato fu teso a ricomporre le divisioni teologali tra la Chiesa di Roma e quella Orientale di Costantinopoli e nella rifinitura delle opere architettoniche già iniziate durante il precedente pontificato quali: la basilica di S. Pancrazio sul Gianicolo e di San Martino ai Monti.

Dopo la morte dell'imperatore Anastasio I, con l'avvento del suo successore Giustino finalmente la chiesa romana riuscì a profilare un nuovo "modus vivendi " con la realtà orientale di Costantinopoli.

Le nuove basi per un comune intento nell'ambito dell' ortodossia teologica furono gettate durante il concilio di Costantinopoli che si rifece ai dogmi dettati dai precedenti concilii di Nicea e di Calcedonia, bandendo definitivamente tutte le eresie imperversanti quali quelle monifisiste, eutichiane, ariane e manicheiste, tant'è che lo stesso patriarca di Bisanzio sottoscrisse la cosidetta "formula Ormisda" che si chiudeva con le seguenti parole: "...sono concorde con il papa e rimprovero tutti quelli che il papa rimprovera."

Il 28 marzo del 519 il concilio di Costantinopoli si concluse con la piena affermazione delle volontà della Chiesa di Roma.

Il pontefice Ormisda si spense il 6 agosto del 523 e fu sepolto all'interno della basilica di San Pietro. Il suo nome non figura nel calendario universale ma viene ricordato nel giorno della sua morte.

Autore: Franco Gonzato

 

Sant'Anna Paleologina (Giovanna di Savoia) Imperatrice bizantina

 6 agosto (Chiese Orientali)

Savoia, 1306 – Tessalonica, 1365

Giovanna di Savoia, nota come imperatrice bizantina col nome di Anna Paleologina, figlia del conte Amedeo V e di Maria di Brabante, inviata diciottenne alla corte di Costantinopoli, nel 1325 divenne moglie del basileus Andronico III Paleologo, rappresentando il pegno dell'alleanza tra Bisanzio e i potentati ghibellini dell'Italia settentrionale. Per l'occasione dovette convertirsi alla fede ortodossa mutando il suo nome da Giovanna in Anna. Visse accanto al marito circa sedici anni, rendendolo padre sei volte e dimostrandosi degna della sua fiducia. Quando Andronico morì, il 15 giugno 1341, ella assunse la reggenza per l'erede Giovanni V, impegnandosi sino al 1347 in un'estenuante lotta contro Giovanni Cantacuzeno per consentire la successione al figlio. In questo anno le due parti raggiunsero un accordo che prevedeva il governo congiunto di Giovanni VI Cantacuzeno e di Giovanni V Paleologo, estromettendo Anna dal potere. Tuttavia non per questo l'imperatrice sarebbe uscita dalla scena politica. Lasciata a capo della città di Tessalonica, nel 1352  probabilmente ancora di lì si adoperò per il successo del figlio fino alla resa del rivale nel 1354. Il suo impegno della capitale macedone, appena uscita dai gravi sconvolgimenti del periodò zelota (1342-1350), le guadagnò l'ammirazione dei dotti bizantini.

Nata latina, imperatrice dei Greci, adattando le proprie convinzioni alla ragione di Stato, l'augusta aveva imparato ad apprezzare la spiritualità bizantina favorendo la dottrina di San Gregorio Palamas. Conscia dei suoi doveri imperiali, abbracciò totalmente la fede dei suoi sudditi, morendo in abito monacale, presso Tessalonica, come si conveniva: «[...] la nostra déspoina, chiamata monaca Anastasia nell'abito divino e angelico, che con le opere e le parole con tutta l'anima per tutta la vita ha lottato per l'affermazione degli insegnamenti degli Apostoli e dei Padri della Chiesa e per l'eliminazione dell'eresia perversa ed empia di Barlaam, Akindynos e i loro adepti. A lei eterna memoria». Così recita il Synodikón dell'ortodossia accogliendo il nome di Anna tra le sante imperatrici, con la menzione dei suoi meriti speciali in difesa della retta fede. Sant'Anna Paleologina e Sant'Andronico III sono entrambi venerati come santi ancora oggi nel Monastero della Trasfigurazione da loro fondato. La loro festa comune ricorre al 6 agosto.

 

Beato Carlo Lopez Vidal Laico coniugato, martire

 Carlos López Vidal, fedele laico, nacque il 15 novembre 1894 a Gandía (Valencia). Sagrestano della Collegiata di Gandía si sposò, nell’ottobre 1923, con la sig.na Rosa Tarazona Ribanocha. Uomo di fede e di vita orante visse nell’esercizio delle virtù cristiane. Aderì a diverse associazioni di apostolato. Incarcerato il 6 agosto 1936, dopo un’ora subì il martirio nella Pedrera di Gandía, al grido di: “Viva Cristo Re!”. La sua beatificazione è stata celebrata da Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001.

Martirologio Romano: Vicino alla città di Gandía nel territorio di Valencia in Spagna, beato Carlo López Vidal, martire, che durante la persecuzione contro la fede raggiunse la gloria celeste.

 

 

7 AGOSTO

Sant'Irene la Giovane Imperatrice d’Oriente

7 agosto (Chiese Orientali)

Atene, 750 ca. – Lesbo, 7 agosto 803

Visse al tempo dell’iconoclastia in Oriente (movimento propugnato dall’imperatore Leone III Isaurico (675-741) contro il culto superstizioso delle immagini sacre).

Irene nacque ad Atene nel 750 ca. da una modesta famiglia e come accadde per altre imperatrici bizantine, fu scelta in circostanze non note, per essere la sposa di Leone, principe ereditario dell’imperatore Costantino V Copronimo (718-775).

Si sposarono il 18 dicembre 768 e l’anno dopo fu nominata ‘augusta’; la principessa Irene aveva un’educazione mediocre, ma restava fedele al culto delle immagini, che dal 726 era proibito severamente.

Quando nel 775 suo marito Leone IV, Chazaro (750-780) divenne imperatore, Irene dovette prestare il giuramento di non accettarle mai; ma ciò non le impedì di venerarle di nascosto.

Quando nel settembre 780 morì il marito, Irene divenne reggente per il figlio Costantino ancora minorenne. La situazione dell’impero in quel periodo, era influenzata dall’iconoclastia; l’amministrazione civile e l’esercito erano nelle mani dei nemici di questo culto, la stessa Chiesa Bizantina aveva molti vescovi aderenti a questo movimento, scelti apposta dall’imperatore; ma il clero e il popolo restavano fedeli al culto tradizionale.

Come imperatrice Irene ebbe come prima cura il ristabilimento del culto delle immagini; lavorò a questo progetto di restaurazione molti anni, senza riuscirci completamente.

Secondo i suggerimenti del patriarca Tarantasio, convocò allo scopo un Concilio nel 786, da tenersi a Costantinopoli, ma una rivolta militare lo impedì; i soldati ostili furono allontanati dalla capitale e i vescovi poterono così riunirsi a Nicea nell’autunno 787, condannando l’iconoclastia e ripristinando il culto alla Vergine. Durante la reggenza nel 783, pose fine alla guerra con gli Arabi.

Quando nel 790 il figlio Costantino VI (771-797), divenne maggiorenne, la madre cercò comunque di tenerlo sotto la sua influenza, provocando così inevitabili conflitti.

Nel novembre 788 ella gli fece sposare una giovane armena di Paflagonia, Maria d’Amnia; continuando i dissidi fra madre e figlio, Costantino finì per aderire nel dicembre 790 ad un complotto contro il potente eunuco Stavrakios, principale consigliere dell’imperatrice Irene; e dopo la reazione furiosa di lei, la rivolta militare le tolse il potere. Nel gennaio 792 il debole figlio Costantino VI la richiamò a corte associandola al trono.

Ma Irene approfittando dello scandalo suscitato dal divorzio dell’imperatore da sua moglie e dal matrimonio illegittimo successivo con Teodota (795), ne sminuì la popolarità accusandolo di bigamia.

Qui subentrò il lato più oscuro e tragico della vita di Irene; il figlio imperatore, cadde vittima di un complotto e dovette fuggire; ricondotto al palazzo fu accecato per ordine della madre, causandone la morte.

Ripreso in pieno il potere, assunse il titolo di “basilissa” (imperatrice), si conquistò il favore del popolo per le sagge leggi amministrative e ne suscitò l’ammirazione per il fasto della corte bizantina.

In politica estera fu poco efficace per l’impero; pensò perfino ad un’alleanza con Carlo Magno con un matrimonio, ma la proclamazione di questi ad imperatore romano (25 dicembre 800) le fece abbandonare il progetto.

Acconsentì a pagare un tributo oneroso nel 798, ad Haroun-al-Rachid e non contrastò la penetrazione degli Slavi nell’impero.

Tutti questi motivi provocarono l’ostilità di parte della corte, il riaffacciarsi degli antichi partigiani dell’iconoclastia, soprattutto i militari e si tramò contro di lei.

Approfittando di una sua assenza, il generale Niceforo, s’impadronì del palazzo e si proclamò imperatore, era il 31 ottobre 802; il colpo di Stato, rischiò di fallire per l’opposizione del popolo.

Irene per evitare spargimento di sangue, allora preferì ritirarsi e contrariamente alle promesse ricevute da Niceforo, fu esiliata nell’isola di Prinkipo e poi a Lesbo, dove morì solitaria il 7 agosto 803.

Il suo corpo riportato a Costantinopoli, venne accolto e venerato dal popolo come una reliquia. Irene fu senz’altro una donna superiore, che sceglieva i mezzi per realizzare i suoi progetti con un’abilità non priva di astuzia; voleva assicurare il culto delle immagini e per questo credette necessario restare al potere.

Fu una grande ambiziosa, per lei l’autorità doveva essere intransigente e questa concezione del potere la condusse fino al delitto nei confronti dell’imperatore suo figlio.

La Chiesa Ortodossa, la canonizzò, nonostante l’atroce comportamento contro il figlio, perché Irene pose fine, sia pure temporaneamente all’iconoclastia e fu munifica protettrice del clero, che beneficò in ogni modo.

Favorì anche le arti e le lettere; la tradizione narra che era bellissima e appassionata e come tale venne rappresentata dagli artisti e scrittori.

La Chiesa Bizantina l’ha iscritta nel suo calendario al 7 agosto.

Autore: Antonio Borrelli

 

 

8 AGOSTO

Oggi due Santi sposi, entrambi laici. Il primo, Giovanni Felton, mi pare che esprima al meglio il compito di "supplenza" da parte dei laici rispetto alla Chiesa ordinata. In assenza di sacerdoti e vescovi (dov'era lui tutti scismatici) si sentì in dovere di rendere pubblica la scomunica del Papa alla regina anche a costo della sua vita e non lo fece di nascosto, ma andò ad affiggere la bolla nel palazzo del vescovo.

L'altro santo sposo, Antero, in una situazione di una Chiesa perseguitata, a sua figlia che gli chiedeva prudenza rispondeva che il martirio per lui «è una grazia troppo grande, che non merito».

Beato Giovanni Felton Laico coniugato, martire

+ Londra, 8 agosto 1570

Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, beato Giovanni Felton, martire, che, crudelmente dilaniato presso la cattedrale di San Paolo per avere affisso in pubblico la bolla di scomunica emessa dal papa san Pio V contro la regina Elisabetta I, compì gloriosamente il suo martirio invocando il nome del Salvatore.

 

Originario di Norfolk, viveva con la sua famiglia a Bermondsey Abbey, vicino a Southwark. Avuta copia della Bolla di scomunica della regina Elisabetta dal banchiere fiorentino a Londra, Ridolfo Ridolfi, e pregato di renderla nota al pubblico, si mostrò pronto, non badando al rischio che correva, e l'appese alla porta del palazzo del vescovo [scismatico] di Londra il 25 magg. 1570. L'atto di audacia gettò lo scompiglio nella città, ma egli, sebbene invitato a fuggire, rimase in casa in attesa dell'arresto e del desiderato martirio.

Il 4 agosto 1570, condotto dinanzi al tribunale, confessò la sua impresa, approfittò dell'occasione per dichiarare e confermare la sua fede nella supremazia spirituale del papa e, come riferisce un testimone protestante che ne descrive il giudizio e il martirio in una relazione stampata lo stesso anno, «si fece traditore della regina negandone la supremazia spirituale». Ripetè queste parole varie volte durante la prigionia agli avversari che cercarono in tutti i modi di farlo rinsavire e domandare perdono alla regina, e ancora di fronte alla forca. In quel momento si sentì assalito da un violento spasimo di terrore, ma si riebbe subito con un energico atto di volontà e puntando il dito verso la porta del vescovo disse : «La lettera del sommo pontefice contro le pretese della regina l'ho appesa io a quella porta. E ora sono pronto a morire per la fede cattolica!». E per mostrare, ciò nonostante, di non nutrire in cuor suo nessuna amarezza contro la regina, si tolse dal dito un anello, in cui era incastonato un diamante prezioso, valutato quattrocento sterline, e lo diede al conte di Sussex, presente, perché lo consegnasse alla sovrana. Fu impiccato e squartato l'8 agosto 1570 e, come testimonia Francesca, sua figlia, mentre il carnefice già ne stringeva in mano il cuore strappatogli dal petto, fu udito ancora invocare per due volte il nome di Gesù. Il suo culto fu riconosciuto il 29 dicembre 1886.

Fonte:Enciclopedia dei Santi  

 

Beato Antero Mateo Garcia Ferroviere, martire

 Valdevimbre, Spagna, 4 marzo 1875 – San Andrés de Palomar, Spagna, 8 agosto 1936

Antero Mateo Garcia, designato quale capogruppo, era sposato e padre di ben otto figli, di cui due religiosi. Impiegato delle ferrovie, costituisce un autentico rappresentante del mondo operaio. Da giovane sognava di poter studiare e diventare prete, ma la situazione economica dei suoi genitori non glielo permise, essendo lui il primogenito di nove figli. Giunse a Barcellona per lavorare e venne a contatto con i domenicani di cui frequentava la chiesa. Con sua moglie entrò allora a far parte della Fraternità del Terz’Ordine. Fu un grande devoto dell’Eucaristia e del Rosario, che era solito pregare fedelmente in famiglia. Con l’infuriare della persecuzione religiosa a Barcellona, fu minacciato sul suo posto di lavoro. L’8 agosto 1936 fu arrestato e condotto in campagna per essere fucilato. Il solo motivo di questa morte fu la sua fede. Disse a sua figlia: “Offro la mia vita per il trionfo del Regno di Dio in Spagna”. E' stato beatificato il 28 ottobre 2007.

 

Primo di nove figli, Antero Mateo Garcia nacque in Valdevimbre (Leon) il 4 mar. 1875. Per aiutare i genitori negli impegni di lavoro, dovette rinunciare all'inclinazione di consacrarsi a Dio. A 27 anni sposò Manuela Trobadelo, dalla quale ebbe otto figli. Fu sposo e padre ideale, lavoratore tenace ed esemplare.

Conobbe gravi difficoltà economiche per portare avanti la numerosa famiglia, soprattutto quando, per calamità naturali, gli affari gli andarono male e si vide costretto a ritornare nel paese natio da Cembranos (presso Leon) dove i genitori gli avevano impiantato una piccola fabbrica di alcool. Presto, però, da solo si recò a Barcellona per trovare lavoro più redditizio e per sottrarsi ai pettegolezzi e alle burle dei paesani che lo vedevano tanto devoto.

Dopo nove mesi, essendo stato assunto nelle ferrovie, nel settembre del 1917 richiamò la famiglia nella capitale catalana. Sin dall'inizio del suo arrivo a Barcellona, frequentò la chiesa dei domenicani, diventandone terziario e due suoi figli frati dell'Ordine. Una figliola fu carmelitana scalza. A costei, che un giorno gli consigliava maggior prudenza per non esser preso dai miliziani, rispose che il martirio per lui «è una grazia troppo grande, che non merito».

Nella seconda metà del luglio 1936 fu segnalato dai rossi per la sua religiosità. Il 6 agosto successivo fu visto alla stazione di Barcellona in attesa della moglie e della figlia carmelitana, provenienti con altre religiose da Valenza; fu arrestato ma subito rilasciato. Ripreso il giorno 8, appena finito il lavoro, all'imbrunire fu fucilato sul ponte detto del «Dragón», a Barcellona. Il giorno seguente, i figli lo trovarono nel deposito dell'ospedale clinico, finito con tre colpi, al labbro superiore, al cuore e allo stomaco.

Autore: Sadoc M. Bertucci            Fonte:Enciclopedia dei Santi

 

 

9 AGOSTO

Conosciamo oggi il contadino che disse no a Hitler e pagò con la vita la sua coerenza di fede. Un uomo che si convertì grazie alla esperienza di fede e di amore vissuta con la propria moglie.

Beato Francesco Jagerstatter Laico, martire

 St. Radegund, Austria, 20 maggio 1907 - Berlin-Brandenburg, Germania, 9 agosto 1943

Franz Jägerstätter nacque nel maggio del 1907 a St. Radegund, cittadina dove trascorse una giovinezza piuttosto dissipata. Poi, un giorno, un pentimento profondo lo indusse a ricordarsi delle sue radici cattoliche. Ne seguì una conversione religiosa intensa che lo portò a darsi una severa regolata. Messa finalmente la testa a partito, nel 1936 si sposò con Franziska Schwaninger. Dal matrimonio nacquero tre bambine. Nel frattempo lo Jägerstätter si era fatto terziario francescano ed aveva anche prestato servizio militare. Ma venne il tempo dell'Anschluss e la Germania nazista mise le mani sull'Austria. Scoppiò anche la guerra e lo Jägerstätter temette di dover parteciparvi come soldato tedesco. Ma non certo per paura. Il fatto era che Franz Jägerstätter era stato l'unico a St. Radegund a votare «no» nel referendum con cui il popolo austriaco doveva approvare l'unione con la Germania. Egli, profondamente cattolico, detestava il nazismo pagano e riteneva del tutto ingiustificata la guerra che esso aveva scatenato. Ma nel febbraio del 1943 arrivò la chiamata alle armi. Lo Jägerstätter, coerentemente, rifiutò di presentarsi. Venne arrestato ai primi di marzo per renitenza alla leva e portato nel carcere di Linz. Su di lui fu esercitato ogni tipo di pressione, dalle lusinghe alle minacce. Gli permisero persino di consultarsi con un paio di sacerdoti cattolici, i quali gli consigliarono di cedere, almeno per amore delle figliolette. Ma Franz Jägerstätter si sarebbe fatto tagliare la testa piuttosto che giurare fedeltà al Reich. Venne preso in parola nell'agosto, a Berlino. Papa Benedetto XVI ha riconosciuto ufficialmente il suo martirio il 1° giugno 2007. Franz Jagerstatter, vittima del nazismo in odio alla sua fede, è stato beatificato il 26 ottobre 2007.

 

 C’è un beato che deve la sua felice collocazione in Paradiso, oltre che alla grazia di Dio, anche alla propria moglie. E non, si badi bene, in virtù del luogo comune secondo cui tutte le donne fanno guadagnare il paradiso ai rispettivi mariti, ma perchè “quella” donna è riuscita a trasformare il “suo” uomo da un cristiano qualsiasi (e neppure tanto fervente) in un martire. Francesco, figlio di ragazza madre, nasce in Austria nel 1907, frutto dell’amore contrastato e “impossibile” tra una ragazza a servizio in una fattoria e un contadino che lavora nei campi attigui: entrambi troppo poveri per sposarsi, tanto che la famiglia di lei, ad un matrimonio di miseria, preferisce tenersi il bambino. Dieci anni dopo mamma si sposa con il proprietario di una piccola fattoria che lo adotta e gli dà il proprio cognome. A 20 anni Francesco va a lavorare in una fattoria della Baviera e in una miniera della Stiria: con i soldi guadagnati, dopo tre anni può tornare in sella ad una moto, la prima del paese, che desta l’invidia degli amici e l’ammirazione delle ragazze, ma ha perso per strada la fede. Simpatico, allegro e festaiolo, ama corteggiare le ragazze del paese e si lascia coinvolgere anche in alcune risse con i giovani delle cricche rivali: un giovane come tanti, insomma, neppure migliore degli altri, che un giorno del 1933 si ritrova anche padre, in seguito alla contrastata relazione con una domestica. Comincia un lungo percorso di riavvicinamento alla fede, ma la vera svolta nella sua vita avviene nel 1935, quando conosce Francesca, che sposa l’anno successivo: cominciano a pregare insieme, la Bibbia diventa loro lettura quotidiana, cercano di “aiutarsi l’un l’altra nella fede”, come ricorda ancora oggi Francesca. “Non avrei mai immaginato che essere sposati potesse essere così bello”, ammette Francesco, che intanto diventa papà di tre meravigliose bimbe. Contadino nei campi che il padre adottivo gli ha lasciato in eredità e per qualche tempo anche sacrestano della sua parrocchia, la sua fede, si nutre sempre più di preghiera e di comunione frequente. I problemi di coscienza cominciano per lui con l’ascesa di Hitler al potere. Ritenendo il nazismo assolutamente incompatibile con il Vangelo e per restare un cristiano coerente non solo a parole, comincia la sua solitaria battaglia di opposizione: rifiuta di fare il sindaco del suo paese, manda indietro gli assegni familiari che lo stato gli dovrebbe, rinuncia anche all’indennizzo per i danni della grandine, fino a convincersi che è peccato grave combattere e uccidere per permettere a Hitler di conquistare il mondo. Prega, digiuna, si confronta con parenti ed amici sacerdoti e tutti gli consigliano di adeguarsi, di pensare alla famiglia, di non mettere a repentaglio la propria vita, mentre lo stesso vescovo di Linz gli ricorda che non è compito di un padre di famiglia stabilire se la guerra sia giusta o no. Tutti, ad eccezione di Francesca. Che, pur sperando in una via d’uscita, non fa pressioni al suo uomo, lo lascia libero di seguire la sua coscienza, lo sostiene quando gli altri non lo capiscono o lo avversano. Così, quando il 1° marzo 1943 viene chiamato a fare il soldato, rifiuta con decisione il servizio militare armato perché “nulla potrebbe garantire la mia anima contro i pericoli che i nazisti le farebbero correre”. Immediatamente arrestato e processato a Berlino davanti al Tribunale supremo del Terzo Reich, viene condannato a morte. Passa in carcere momenti terribili, combattuto tra il ricordo delle figlie e dei momenti felici regalatigli da Francesca, che gli “sembrano talvolta perfino dei miracoli”, e i suoi imprescindibili doveri di cristiano. Mentre sente “l’obbligo di pregare Dio, che ci permetta di capire a chi e quando dobbiamo obbedire”, cosciente che potrebbe cambiare il suo destino con un semplice “sì”, arriva alla conclusione che “né il carcere, né le catene e neppure la morte possono separare un uomo dall’amore di Dio e rubargli la sua libera volontà” “Scrivo con le mani legate, ma è meglio così che se fosse incatenata la mia volontà”, è il suo ultimo messaggio dal carcere; viene ghigliottinato il 9 agosto 1943 a Brandeburgo, nello stesso carcere in cui è detenuto anche il teologo protestante Bonhoeffer. Franz Jägerstätter, il contadino che disse di no ad Hitler, è stato beatificato a Linz il 26 ottobre dell’ano scorso.

Autore: Gianpiero Pettiti

 

 

San Costantino VI Imperatore d’Oriente

 9 agosto e 28 novembre (Chiese Orientali)

Costantinopoli, 771 – 797

Visse nel tempo dell’iconoclastia e il suo destino di sovrano bizantino, fu legato indissolubilmente alla figura e al potere della madre l’imperatrice Irene.

Figlio di Leone IV Chazaro (750-780) e di Irene l’Ateniese, detta anche la Giovane (750-803), Costantino nacque nel 771 a Costantinopoli; il padre aveva proseguito nelle politica dell’iconoclastia, in vigore nell’impero bizantino dal 726.

Sua madre invece, fedele al culto delle immagini, dovette prestare giuramento di non accettarle mai, quando divenne la sposa dell’allora principe ereditario Leone IV, ma in realtà continuò a venerarle di nascosto.

Quando Costantino aveva otto anni, suo padre lo proclamò coimperatore e quando l’anno seguente, nel settembre 780, il trentenne imperatore Leone IV morì, egli regnò sotto la tutela della madre, donna di straordinaria ambizione e capacità, come del resto lo furono altre celebri imperatrici bizantine.

Irene come reggente, ebbe come prima cura il ristabilimento del culto delle immagini; lavorò a questo progetto di restaurazione per molti anni, senza però riuscirci completamente; convocò allo scopo un Concilio a Nicea nel 787.

Per rafforzare la sua politica di alleanza con l’Occidente, Irene propose nel 782, il matrimonio dell’undicenne Costantino, con la figlia di Carlo Magno re dei Franchi, che mirava alla conquista delle terre bizantine in Italia; ma pur avendo inviato un maestro greco di nome Eliseo alla corte dei Franchi, per istruire Rotrude la promessa sposa, nella lingua e usanze della società bizantina, il matrimonio non ebbe mai luogo.

Pur avendo raggiunto la maggiore età nel 790, Costantino VI continuò a subire la grande influenza materna, non avendo significativo potere e il suo disappunto cresceva sempre più.

Irene intanto gli aveva trovata una moglie in una bella ragazza di Amnia in Paflagonia, di nome Maria, nipote di s. Filarete l’Elemosiniere e sposata nel 788.

La situazione di dissidio persisté fra la madre che continuava ad agire ufficialmente come imperatrice, anche se anteponeva il nome del figlio su documenti e disposizioni, e il figlio che cercava di arginarla, tentando di limitare il potere del consigliere della madre, il potente eunuco ministro Stavrakios.

Alla fine Costantino VI, aderì ad una congiura di palazzo nel gennaio 790, organizzata da ufficiali suoi amici, ma tempestivamente scoperta.

Fu punito con uno schiaffo dalla madre e limitato nell’agire per alcuni giorni; ma a seguito della sconfitta dei bizantini da parte degli arabi, avvenuta nell’estate 790, ci fu nel settembre successivo un’altra rivolta, che questa volta ebbe successo; la stessa Irene fu confinata nel palazzo di Eleuterio.

Iniziò così un periodo di sette anni, in cui Costantino regnò come imperatore senza ostacoli, ma non furono tuttavia felici.

Conscio dei suoi limiti, due anni dopo, nel gennaio 792 richiamò la madre Irene, associandola al trono e usufruendo della sua provata esperienza nel governare, ma questo atto non risolse la situazione difficile dell’impero, anzi finì per peggiorarla.

In campo militare Costantino non era un abile generale e gli insuccessi bellici, provocarono disordini interni; ma quello che fu micidiale per lui, fu la separazione nel 795 da sua moglie Maria, dalla quale aveva avuto due figlie Eufrosine ed Irene, la fece rinchiudere in un monastero insieme alle due bambine e sposò illegittimamente Teodota, una dama di corte.

Il cugino di Teodota, il monaco Teodoro Studita del monastero di Succudione, si oppose a quella “relazione adulterina” e lo scontento si estese a tutti i monasteri e a poco a poco anche al popolo e all’esercito.

 Anche la madre Irene, approfittando dello scandalo suscitato, ne sminuì la popolarità accusandolo di bigamia; un’ennesima sommossa provocò il suo arresto e quindi fu rinchiuso nella sala della Porpora dove era nato.

Il 19 agosto 797 per ordine dell’imperatrice madre, subì la pena convenzionale dell’accecamento; fu il momento più tragico della vita di Irene e di suo figlio Costantino VI; la legge e la difesa ad ogni costo dell’autorità imperiale, provocò l’enormità della pena; ma gli Ortodossi con i loro patriarchi, preferirono davanti agli indiscussi meriti di Irene, non tener conto di questo fatto tragico e la considerarono comunque come una santa (vedere anche la scheda propria).

Costantino VI, secondo alcuni cronisti dell’epoca, morì a causa dell’accecamento, forse per un’infezione, mentre altri dicono che visse ancora qualche anno, perché quando nell’802 il generale Niceforo spodestò dal trono Irene, egli era presente, ma ciò non è provato; perché egli morì nel 797 a Costantinopoli, probabilmente subito dopo l’accecamento.

Costantino fu inizialmente sepolto nel monastero dell’isola di Prinkipos nel Mar di Marmara, fatto costruire dalla madre; sembra inoltre che Irene avesse fatto trasferire in questo monastero Maria e le due figlie, cosicché quando Costantino VI morì a soli 26 anni, la moglie abbandonata dispose che fosse sepolto nell’isola; dove poi nell’803 fu tumulata anche Irene morta in esilio a Lesbo.

Il potere lo separò dalla madre, la morte lo riunì nuovamente a lei. Delle due figlie di Costantino VI, Eufrosine andò in sposa all’imperatore Michele il Balbuziente e più tardi elle fece costruire un monastero a Livadia, facendovi trasportare i resti dei genitori dall’isola di Prinkipos; quelli di Irene invece erano già stati trasferiti nella Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli.

Il merito di aver convocato nel 787, insieme alla madre, il VII Concilio Ecumenico a Nicea, non fu offuscato nella considerazione della Chiesa, dallo scandalo provocato dalla relazione adulterina; nella seduta conclusiva del Concilio egli e sua madre furono acclamati come nuovi “Costantino ed Elena”.

In documenti successivi Costantino è chiamato “imperatore amico di Cristo (philochristos)” e anche il suo grande accusatore, il monaco Teodoro Studita, lo chiamò “piissimo imperatore” assicurando “la cui retta fede invero sigillata dalla pietà materna”.

In vari Menologi Bizantini, Costantino è ricordato insieme alla madre al 9 agosto, ma c’è anche una memoria separata solo per lui al 28 novembre, probabile giorno della traslazione dei suoi resti.

Autore: Antonio Borrelli

 

 

10 AGOSTO

Santa Plettrude VII-VIII secolo

 Nacque da una nobile famiglia franca nelle vicinanze di Treviri. Suo padre Ugoberto, parente del santo vescovo Teodardo, divenne, nel 705, vescovo di Maastricht e sua madre fu, come oggi viene generalmente riconosciuto, la beata Irmina, che mori come badessa di Oren ed è presumibilmente sepolta a Weissenburg. Andata sposa al maggiordomo franco Pipino, Plettrude esercitò su di lui un benefico influsso e dal matrimonio nacquero due figli, Drogo e Grimoaldo che morirono precocemente. I suoi rapporti con lo sposo tuttavia furono spesso offuscati dalla presenza di una concubina, Alpaida (Chalpaida), da cui nacque Carlo Martello.

Partecipò in misura determinante alla fondazione nel 697-98 del monastero di Echternach, nell'odierno Lussemburgo, che fu affidato a s. Willibrordo, e a quella di Kaiserswerth con l'aiuto di s. Suitberto. Da questi due centri partirono missionari anglosassoni destinati in particolare alla conversione dei Frisoni.

Dopo la morte di Pipino nel 714, Plettrude affidò la reggenza a Carlo Martello e si ritirò a Colonia, dove fondò una chiesa in onore della Madre di Dio, che più tardi prese il nome di «S. Maria in Capitolio», e una comunità conventuale. Secondo la tradizione mori a Colonia il 10 ag. 725 e vi fu sepolta.

Il culto di Plettrude rimase limitato alla chiesa da lei fondata e al convento di S. Maria in Capitolio dove la sua tomba si trovava nel centro del coro dinanzi all'altare maggiore e dove si conserva ancora il coperchio del sepolcro col ritratto della santa scolpito nel sec. XI.

Le notizie relative a Plettrude derivano anzitutto dalla Chronica Regia del sec. XII, quindi sono tardive, ma la tradizione che la riguarda come fondatrice e come santa è rimasta ininterrotta. Il giorno della sua morte è stato sempre celebrato in S. Maria in Capitolio come «memoria Plektrudis reginae fundatricis huius ecclesiae» e malgrado l'opinione dei Bollandisti, il suo culto è provato senza alcun dubbio. Il Calendario di Essen del sec. XIII o XIV riporta il suo nome, così come le litanie del Liber Capitularis di S. Maria nel sec. XIV. La sua festa veniva celebrata prima il 10, più tardi l'11 ag. ed anche il 18 settembre.

Autore: Johannes Emil Gugumus         Fonte:Enciclopedia dei Santi  

 

Sant'Erico (Erik) IV Re di Danimarca, martire

1216 - 10 agosto 1250

Primo figlio di Valdemar Sejr e di Berengaria, nacque nel 1216 e visse in uno dei più tormentati periodi che la Danimarca abbia attraversato. Era stato nominato duca della regione di Sonderjylland nel 1218 ed era stato incoronato re nel 1232, ma cominciò a regnare nel 1241. Uno dei suoi fratelli, Abele, rifiutò di riconoscerlo re e ne nacque una guerra intestina fra i numerosi fratelli durante la quale la più gran parte del Sonderjylland fu devastata. Nel 1249 progettò una crociata in Estonia e per sostenere le spese mise un'imposta su ogni aratro, provocando una sommossa nella Scania, la parte meridionale dell'attuale Svezia, che allora apparteneva alla Danimarca. Da questa imposta gli derivò il soprannome di Plovpennings, con il quale è passato alla sto¬ria (da plov = aratro e penning — moneta, danaro). La crociata fu rimandata, ma l'anno dopo Erico entrò improvvisamente nel paese di Abele e co¬strinse il fratello a sottomettersi. Poco dopo, durante una discussione, Abele fece prendere il fra-tello a tradimento e lo consegnò ad uno dei suoi nemici mortali, che, fattolo decapitare, ne buttò il cadavere in mare (10 ag. 1250). Quando, il giorno dopo, il cadavere fu trovato da alcuni pescatori, fu sepolto dai «frati neri» (così si chiamavano allora nel Nord i Domenicani) nella loro chiesa. Nel 1257 fu trasportato nella chiesa di Ringsted, dove sono sepolti molti re danesi. La impressionante morte di Erico e la sorte che, come un castigo di Dio, era toccata ai suoi assassini (tutti morirono di morte violenta), fecero sì che il popolo danese lo considerasse come un martire e molte confraternite sorgessero in suo onore e col suo nome. La sorte tragica del re Erico offrì materia al grande poeta danese Ohlenschlager (1779-1850) per un dramma, Enrico ed Abele, scritto nel 1820. La sua festa si celebra il 9 o il 10 agosto.

Eric ebbe solo figlie femmine che raggiunsero l'età adulta (avute dalla moglie Jutta di Sassonia):

Autore: Anna Lisa Sibilla            Fonte:Enciclopedia dei Santi

 

 

11 AGOSTO

Beati Raffale Alonso Gutierrez e Carlo Diaz Gandia Padri di famiglia, martiri

 + 11 agosto 1936

Rafael Alonso Gutiérrez, fedele laico, nacque il 14 giugno 1890 a Onteniente (Valenca). Il 24 settembre 1916 si sposò con la Sig.na Adelaida Ruiz Cañada ed ebbero 6 figli. Impiegato della Posta, membro dell’Azione Cattolica parrocchiale e di notevole virtù fu il cattolico più in vista di Onteniente. L’11 agosto 1936, dopo una lunga agonia, morì martirizzato dai miliziani rossi ad Agullent.

Carlos Díaz Gandía, fedele laico, nacque a Onteniente (Valencia) il 25 dicembre 1907 e fu battezzato il giorno seguente nella chiesa parrocchiale di Santa Maria. A quattordici anni si iscrisse nella Gioventù dell’Azione Cattolica e fu modello di zelo apostolico arrivando a ricoprire la carica di Presidente degli Uomini. Fu un eccellente catechista ed ebbe grande carità con i bisognosi. Si sposò con la sig.na Luisa Tomó Perseguar il 3 novembre 1934 nella chiesa parrocchiale Santa Maria di Onteniente ed ebbero una figlia che lasciò orfana ad otto mesi. Detenuto all’alba del 4 agosto 1936, subì il martirio l’11 agosto 1936 al grido di: “Viva Cristo Re”!

Beatificati l’11 marzo 2001 da Giovanni Paolo II con altri 231 martiri della Guerra Civile Spagnola.

Martirologio Romano: Nel villaggio di Agullent nel territorio di Valencia in Spagna, beato Raffaele Alonso Gutiérrez, martire, che, padre di famiglia, versò il sangue per Cristo durante la persecuzione contro la fede. Insieme a lui si commemora anche il beato martire Carlo Díaz Gandía, che in questo giorno nello stesso territorio combattendo per la fede conseguì la vita eterna.

 

Beato Carlo Diaz Gandia

Due anime, una contemplativa e l’altra attiva, molto attiva, sono mirabilmente fuse nel corpo di un giovane dalla vitalità prorompente, gioioso, entusiasta, amico di tutti. A plasmarlo così, oltre alla grazia di Dio, è stata l’Azione Cattolica, che ha fatto di lui il cristiano coerente e coraggioso, con i piedi ben posati per terra ma con gli occhi costantemente fissi al cielo. Nasce esattamente 100 anni fa, in provincia di Valenza, nel giorno di Natale, e viene battezzato il giorno successivo, festa del primo martire Stefano, quasi segno e profezia di quella che sarà la sua avventura cristiana, contrassegnata dal martirio. A 14  anni entra a far parte dell’Azione Cattolica, che diventa la sua seconda famiglia e il campo principale del suo apostolato. Qui impara a vivere autenticamente e pienamente la sua vocazione laicale, impregnando di spirito evangelico la realtà sociale nella quale vive. Ben presto diventa presidente dei Giovani, poi degli Uomini, sostenuto dalla forte e saggia direzione spirituale del suo parroco, che lo stimola e lo incoraggia, ma che sa anche forgiarne il carattere, a volte un po’ irruente, certamente troppo energico ed esplosivo. E’ un catechista eccellente, che sa affascinare e conquistare e per questo fonda diversi “centri catechisti” in varie località, in cui insegna catechismo ogni domenica dell’anno, spostandosi da un centro all’altro, a piedi o in bicicletta, raccogliendo lungo il cammino gli insulti e le derisioni di quanti in quegli anni cominciano ad osteggiare apertamente la Chiesa. La Spagna sta vivendo infatti anni difficili, contrassegnati da rivolgimenti politici che presto si trasformano in aperta persecuzione religiosa. Lui è troppo esposto, troppo compromesso con il suo impegno ecclesiale, per non essere nel mirino dei persecutori. Una notte un gruppo di teste calde parte all’assalto della canonica, al grido di “morte al parroco”: lui li insegue, li raggiunge, urla, li sfida e da solo li mette in fuga; non si tratta soltanto di affetto per il suo parroco, che è anche la sua guida spirituale: é soprattutto il suo dovere di cristiano, che gli impone di prendere le difese della Chiesa, dei suoi uomini, dei suoi simboli. Per questo, insieme ad altri giovani di Azione Cattolica, si impegna a presidiare di notte le chiese e i conventi, per evitare vandalismi e profanazioni che si fanno sempre più frequenti. La sua è una fede solida, alimentata dalla comunione frequente e dal rosario quotidiano, che egli ama recitare alle prime luci dell’alba e che dà un tono a tutte le sue giornate. Si sposa il 3 novembre 1934 e un anno dopo diventa papà di una bella bimba, ma la situazione precipita: arresti, detenzioni, torture e uccisioni sono all’ordine del giorno e lui sa benissimo a quali rischi va incontro. Il 24 luglio 1936, proprio mentre iniziano ad incendiare chiese e immagini sacre, offre la sua vita al Signore perché in Spagna torni la pace e cessi la persecuzione”. Quattro giorni dopo riesce a portare in salvo le ostie consacrate conservate nel tabernacolo, pochi istanti prima che inizi il saccheggio della sua chiesa. Da quel giorno gli giurano vendetta e non lo perdono più di vista. Lo vengono a cercare a casa il 4 agosto, lo arrestano e lo mettono in carcere, da dove lo tirano fuori l’11 agosto per fucilarlo. “Viva Cristo Re”, sono le ultime parole, davanti ai fucili spianati, non ancora trentenne Carlo Diaz Gandìa, beatificato da Giovanni Paolo II° l’11 marzo 2001.

Autore: Gianpiero Pettiti

 

 

12 AGOSTO

Ecco una grande santa sposata che, rimasta vedova, accostò il suo nome nella santità non al suo sposo, ma al grande Francesco di Sales di cui fu collaboratrice e ispiratrice. La loro storia è talmente legata che fu sepolta accanto al grande santo!

Santa Giovanna Francesca de Chantal Religiosa

 Digione, Francia, 1572 - Moulins, Francia, 13 dicembre 1641

La vita di Giovanna Frémiot è legata indissolubilmente alla figura di Francesco di Sales, suo direttore e guida spirituale, e di cui fu seguace e al tempo stesso ispiratrice e collaboratrice. Nata a Digione nel 1572, a vent'anni sposò il barone de Chantal, da cui ebbe numerosi figli. Rimasta vedova, avvertì sempre di più il desiderio di ritirarsi dal mondo e di consacrarsi a Dio. Sotto la guida di Francesco di Sales, diede vita a una nuova fondazione intitolata alla Visitazione e destinata all'assistenza dei malati. L'Istituto si diffuse rapidamente nella Savoia e nella Francia. Ben presto seguirono Giovanna, diventata suor Francesca, numerose ragazze, le Visitandine, come erano chiamate e universalmente note le suore dell'Istituto. Prima della sua morte, avvenuta a Moulins il 13 dicembre del 1641, le case della Visitazione erano 75, quasi tutte fondate da lei. (Avvenire)

Etimologia: Giovanna = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico

 Martirologio Romano: Santa Giovanna Francesca Frémiot de Chantal, religiosa: dal suo matrimonio cristiano ebbe sei figli, che educò alla pietà; rimasta vedova, percorse alacremente sotto la guida di san Francesco di Sales la via della perfezione, dedicandosi alle opere di carità soprattutto verso i poveri e i malati; diede inizio all’Ordine della Visitazione di Santa Maria, che diresse pure con saggezza. Il suo transito avvenuto a Moulins sulle rive dell’Allier vicino a Nevers in Francia ricorre il 13 dicembre.

(13 dicembre: Nel monastero della Visitazione a Moulins in Francia, anniversario della morte di santa Giovanna Francesca Frémiot de Chantal, la cui memoria si celebra il 12 agosto).

 

Nella storia della Chiesa troviamo alcuni casi in cui uomo e donna hanno agito insieme nel cammino della santità, ricordiamo così Francesco e Chiara, Elzeario di Sabran e Delfina di Glandève, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, Benedetto e Scolastica, Luigi e Zelia Martin (genitori di santa Teresina di Lisieux), Giulia e Carlo Tancredi di Barolo, i coniugi Beltrame. Altra “coppia” sorprendente fu quella composta da san Francesco di Sales e Giovanna Francesca Frémyot de Chantal. Fu infatti grazie all’incontro con il vescovo di Ginevra che Giovanna definì il suo percorso di santità.

I francesi la chiamano sainte Chantal e la venerano ad Annecy, dove riposa accanto a san Francesco di Sales.

Nasce a Digione il 23 gennaio 1572 in una famiglia dell’alta nobiltà borgognona. Suo padre è Benigno Frémyot, secondo presidente del Parlamento. Rimasta ben presto orfana di madre, crescerà sotto l’educazione e la morale paterne.

Il 29 dicembre 1592 Giovanna sposa Cristoforo II, barone di Chantal. Il loro è un matrimonio felice. Viene da subito chiamata «la dama perfetta» per quel suo prodigarsi nella tenuta di Bourbilly e per le attenzioni e premure che riserva al consorte. Da questa unione perfetta nascono sei figli: i primi due muoiono alla nascita, poi arrivano Celso Benigno, Maria Amata, Francesca e Carlotta.

 Dolce, serena, affabile, Giovanna è amata dai suoi familiari, come dalla servitù. Quando Cristoforo si assenta dal castello per adempiere ai suoi impegni di corte, Giovanna lascia gli abiti eleganti e si dedica ai poveri, ai quali non offre solo denaro, ma la propria persona, servendoli. La sua carità si fa immensa durante la carestia che colpisce la Borgogna nell’inverno 1600-1601. È qui che la baronessa, senza ascoltare i borbottii di molti e incoraggiata dal consorte, trasforma il maniero in un vero e proprio ospedale per ospitare madri e bambini in difficoltà e si occupa della costruzione di un nuovo forno per poter distribuire il pane a tutti coloro che bussano alla sua porta. Un giorno le viene detto che nel granaio non è rimasto che un solo sacco di segala… e lei, senza esitazioni, ordina di proseguire la distribuzione del pane, come prima… la segala finirà al nuovo raccolto.

Ma ecco giungere la prima grande prova, la morte di Cristoforo, ucciso da un colpo di archibugio durante una battuta di caccia.

Resta vedova a soli 29 anni, vedova e madre di quattro creature di cui la prima ha solo cinque anni e l’ultima pochi giorni. Matura, in questo tempo di lutto e di dolore, il desiderio di consacrarsi a Cristo, ma i doveri familiari non le permettono una scelta di vita così drastica. In attesa di conoscere la volontà di Dio, Giovanna si dedica totalmente ai figli, all’amministrazione della casa e alla preghiera.

Il suocero, barone di Chantal, la informa che deve subito trasferirsi da lui, a Monthélon se desidera che i figli prendano parte all’eredità e lei accetta, pur sapendo che nella residenza dell’anziano barone comanda una «servapadrona». Per lungo tempo dovrà sopportare le angherie di quest’ultima.

 Il suo nome inizia a rendersi noto per la sua carità. Non è più chiamata «dama perfetta», ma la «nostra buona signora».

Un’altra difficile prova deve ora affrontare: la sua guida spirituale non comprende la sua persona, non sa leggere la sua anima. Un giorno suo padre la invita a Digione, questa volta per ascoltare il quaresimale del vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, la cui fama si diffonde sempre più in Savoia e in tutta la Francia. Il primo incontro fra Giovanna e il vescovo avviene il 5 marzo del 1604. Da allora si instaura un cammino di unione fraterna e spirituale straordinario. La direzione spirituale di Francesco di Sales si realizza soprattutto attraverso l’epistolario, dove l’umano è «divinizzato» e il divino «umanizzato».

In una lettera inviata al vescovo ginevrino Giovanna scrive: «… tutto quello che di creato c’è quaggiù non è niente per me se paragonato al mio carissimo Padre… Un giorno mi comandaste di distaccarmi e di spogliarmi di tutto. Oh Dio, quanto è facile lasciare quello che è attorno a noi, ma lasciare la propria pelle, la propria carne, le proprie ossa e penetrare nell’intimo delle midolla, che è, mi sembra, quello che abbiamo fatto è una cosa grande, difficile e impossibile se non alla grazia di Dio».

 Nel 1610 firma di fronte al notaio un atto con il quale si spoglia di tutti i beni in favore dei figli. Lascia dunque la famiglia e parte per Annecy e il 6 giugno, insieme a due compagne, Giacomina Favre e Giovanna Carlotta de Bréchard entra nella piccola ed umile «casa della Galleria», culla dell’Ordine della Visitazione.

Rimarrà sempre “madre”, continuando ad amare profondamente e teneramente i suoi figli. Nuove morti, nuovi lutti… tanto che soltanto la figlia Francesca le sopravviverà tra figli, fratelli, generi e nuora. Perciò Dio diventa per lei l’unica ricerca, l’unico fine della sua attuale vita. Alla scomparsa di Francesco di Sales (28 dicembre 1622), Giovanna si trova sola alla guida della nuova famiglia religiosa della Visitazione. Si fa pellegrina sulle strade di Francia, fondando ben 87 case visitandine. Consumata «nell’amore di opera e nell’opera di amore», come usava dire, si spegne il 13 dicembre 1641 nel monastero di Moulins.

Le «Lettere di amicizia e direzione» (tradotte per la prima volta in italiano, a cura dei monasteri della Visitazione d’Italia) sono la testimonianza più viva della grande spiritualità di Madre Chantal ed è la prova che fosse persona troppo intelligente e “libera” per ridursi ad un’ombra anonima di san Francesco di Sales.

Autore: Cristina Siccardi

 

 

13 AGOSTO

Oggi tutti santi re, regine ed imperatrici. Poco da dire... salvo San Svetiboldo, leggendone la vita tutto sembra che fu tranne che santo... ma fu venerato come tale, grazie a due sue figlie, Benedetta e Cecilia, badesse di Susteren, dove il loro padre era stato sepolto. Considerate loro come sante, venivano festeggiate il 17 agosto e il padre finì per ricevere anche lui un culto nell'abbazia.

 

Sant'Irene d'Ungheria Imperatrice

 Ungheria, XI sec. – Bisanzio, 13 agosto 1134

Irene nacque nell'XI secolo in Ungheria, figlia del re Ladislao. Fu chiesta in sposa dall'imperatore Alessio I Comneno e da sua moglie per il loro figlio Giovanni, il quale fu imperatore d'Oriente con il nome di Giovanni II dal 1118 al 1143: si sposarono verso il 1105. Irene viene descritta come ricca di virtù, soprattutto nella carità verso i poveri e nell'interessamento per le opere di beneficenza. È stato affermato che fu lei a far costruire a Bisanzio il celebre monastero del Cristo Pantocrator - mentre suo marito era impegnato nelle guerre e scacciava i Turchi dall'Ellesponto e conquistava l'Anatolia -: questa notizia viene confermata anche da uno scrittore dell'epoca, Ginnamos. L'imperatrice morì a Bisanzio il 13 agosto 1134 e venne sepolta nel Pantocrator con il nome di Xene, perché, secondo un antico costume, prese questo nome e l'abito religioso sul letto di morte. (Avv.)

Emblema: Palma

 

Irene nacque nell’XI secolo in Ungheria, essendo figlia di s. Ladislao re d’Ungheria; venne chiesta in sposa dall’imperatore Alessio I Comneno e da sua moglie Irene, per il loro figlio Giovanni, il quale divenne imperatore d’Oriente con il nome di Giovanni II (1118-1143).

 Si sposò verso il 1105; i menologi orientali dicono che era ricca di virtù, soprattutto per la carità verso i poveri e l’interessamento per le opere di beneficenza della capitale.

È stato affermato che fu lei a far costruire a Bisanzio il celebre monastero del Cristo ‘Pantocrator’, mentre suo marito era impegnato nelle guerre, cacciando i Turchi dall’Ellesponto e conquistando l’Anatolia; questa notizia viene confermata anche da uno scrittore dell’epoca, Ginnamos.

L’architetto Niceforo, costruttore del grandioso monastero, era addetto al suo servizio e poi si sa dal ‘Typicon’ donato al cenobio nel 1137, che Irene fece numerose donazioni al ‘Pantocrator’ e alle fondazioni benefiche che da esso ne dipendevano.

L’imperatrice morì a Bisanzio il 13 agosto 1134 e venne sepolta nel ‘Pantocrator’ con il nome di Xene, perché certamente secondo un antico costume, prese questo nome e l’abito religioso sul letto di morte.

La sua festa si celebra il 13 agosto.

Autore: Antonio Borrelli

 

 

Santa Radegonda Regina di Francia

 m. 13 agosto 587

Radegonda nacque nel 518 e fu regina di Francia. Quando nel 531 Clotario I, re di Francia, sconfisse Ermenfrido, l'usurpatore del regno di Turingia, portò con sé Radegonda, giovane figlia del re deposto e ucciso, Bertario. La inviò agli studi così Radegonda ricevette un'educazione adatta al suo alto rango e un'istruzione letteraria di grande rilievo, cosa unica per una donna dei suoi tempi. E dopo otto anni, intorno al 540, la sposò nonostante Redegonda non fosse consenziente. Clotario mostrò ben presto la sua indole violenta, che Radegonda sopportò fin quando fu possibile. Poi, ottenuto il consenso dal vescovo Medardo, si fece consacrare e si ritirò nel monastero di Tours, dove già viveva la regina Clotilde, intristita dalle gesta del figlio, ma contenta per l'arrivo della nuora. Passò quindi nel convento di Saix e, infine, per 30 anni visse in penitenza nel monastero di Poiters "da lei stessa fatto edificare", dove morì il 13 agosto 587. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Poitiers in Aquitania, in Francia, santa Radegonda, che, regina dei Franchi, prese il sacro velo mentre suo marito, il re Clotario, era ancora in vita e visse nel monastero di Santa Croce a Poitiers da lei stessa costruito sotto la regola di san Cesario di Arles.

 

La società romana e imperiale intorno agli anni 500 – 600, sembrava ormai come un cadavere posto in piedi, bastò che i barbari nel loro passaggio lo toccassero che cadde sfasciato.

Anche in quei tempi bui e tristi, la Provvidenza non mancò di accorrere in soccorso della Cristianità, facendo sorgere in mezzo a quella spaventosa confusione, figure di Santi che con la loro vita, le loro idee, la loro fede rappresentarono e difesero il pensiero cristiano, sempre vitale e soccorrevole.

Fra questi, nella Francia, ‘primogenita della Chiesa’, vi fu prima Clotilde regina e poi Radegonda sua nuora che gli succedette sul trono; donne egualmente ammirabili e sante.

Radegonda aveva già vissuto fino a quasi dodici anni varie tragedie familiari, il padre Bertario venne ucciso dal fratello Ermenfrido il quale poi fece uccidere anche l’altro fratello Baderico per impadronirsi del trono.

Il regno di Turingia, nel 531 venne sconfitto da Clotario I re di Francia e Radegonda, appena dodicenne seguì i prigionieri di guerra in Neustria, dopo aver visto morire uccisi gli altri parenti.

Ma la sua straordinaria bellezza e la distinzione del suo grado attrassero l’attenzione di Clotario, il quale già pensando di farne una futura moglie, la inviò agli studi nella villa reale di Athies. Ricevette un’educazione adatta al suo alto rango e un’istruzione letteraria di grande rilievo, forse unica per una donna dei suoi tempi.

Intorno al 540, Clotario la volle come sposa, benché non fosse consenziente; per lunghi anni dovette sopportare con infinita pazienza il carattere collerico e brutale del marito, il suo umore instabile e i continui tradimenti, condusse a corte una vita da perfetta cristiana, quasi da monaca pur senza trascurare i suoi doveri di sovrana.

Ma quando anche l’amato fratello Clotacario venne ucciso a tradimento da Clotario, già responsabile della morte di tutti i suoi familiari, Radegonda disse al Re che per lei non vi era più posto in quella reggia e ottenuto il suo consenso, si fece consacrare diaconessa e si ritirò nel monastero di Tours, lì dove già viveva la regina Clotilde, intristita dalle gesta infami del figlio, ma consolata per la venuta della diletta nuora.

Da lì passò poi nel chiostro di Saix ove stette per sei anni, dedicandosi ad ogni cura per il sollievo della povera gente del luogo, accudendo gli ammalati specie quelli più ributtanti per le malattie, a cui all’epoca non vi erano rimedi, come la lebbra.

 Appena poté, entro nel nuovo monastero di s. Maria poi chiamato di s. Croce a Poitiers da lei fatto edificare.

In breve duecento vergini popolarono il sacro luogo ma Radegonda non volle avere il titolo di badessa che diede invece a s. Agnese, sua figlia adottiva (lei non aveva avuto figli) a cui si sottomise secondo la regola di s. Cesario d’Arles, come una semplice novizia.

Clotario tentò, non riuscendovi, di farla tornare con lui infrangendo i voti, ma davanti alla sua fermezza si ritirò pentito, ed è la prima volta che si vede in lagrime un uomo che grondava sangue per i numerosi delitti; comunque un anno dopo questo tentativo, egli morì, i suoi quattro figli avuti da altra moglie, favorirono il convento, con continue e generose elargizioni, anzi il più giovane inviò alla veneranda regina il poeta Venanzio Fortunato il quale profuse il suo zelo per aiutarla nei rapporti specie epistolari che lei aveva con il papa, vescovi e re d’Occidente e anche d’Oriente.

Nei 30 anni che stette a Poitiers, senza uscirne mai, assisté a pestilenze, inondazioni, terremoti in tutto il regno e l’assalto dell’infuriata Fredegonda a Poitiers, il cui vescovo s. Pretestato venne sgozzato sull’altare.

Radegonda, morì il 13 agosto 587 circondata dal rimpianto di tutti.

S. Gregorio di Tours, che l’aveva assistita nelle sue ultime ore, vedutone il corpo giacente nella bara, lasciò scritto: “aveva in viso serbata tale una freschezza da vincere al paragone i gigli e le rose”.

Autore: Antonio Borrelli

 

San Sventiboldo Re di Lorena

 + Susteren, Germania, 13 maggio 901

Figlio di Arnolfo di Carinzia, re di Germania e nipote dell'imperatore Carlo il Grosso, e di una sua concubina, Sventiboldo nacque verosimilmente nell'870 o ai primi dell'871. Il giorno 11 maggio 895, Arnolfo lo fece re di Lorena in una assemblea tenuta a Worms, e i principi gli promisero fedeltà.

Desideroso di ingrandire il suo regno (i cui confini non ci sono perfettamente noti), Sventiboldo strinse alleanze, poi tramò intrighi contro i suoi alleati e tentò di detronizzare il re della Francia occidentale, Eudo. Entrò anche in violento conflitto con i grandi del suo regno, ai quali voleva imporre i diritti della sua corona. L'ultimo episodio di questa lotta fu fatale a Sventiboldo: un conte senza scrupoli provocò l'invasione della Lorena da parte di Carlo il Semplice, divenuto re della Francia occidentale, e, poiché la violenza aveva alienato ad Sventiboldo non soltanto la fiducia dei feudatari laici ma anche quella degli ecclesiastici (era giunto fino a colpire col suo bastone l'arcivescovo di Treviri, capo della sua cancelleria), tutti si trovarono d'accordo, ai primi del 900, nel dichiararlo decaduto e nel sostituirlo col suo giovane fratello Luigi « il Fanciullo » che era stato già incoronato in Germania.

Sventiboldo morì il 13 maggio successivo vicino a Susteren, sulle rive della Mosa, ucciso in una battaglia ch'egli combatteva contro le armate del fratello. Il suo corpo fu sepolto a Susteren.

I cronisti ci hanno descritto Sventiboldo come un crudele tiranno; gli storici, con un giudizio più attenuato pur riconoscendo la sua grande energia, non hanno potuto fare a meno di constatare che gli mancavano la moderazione e l'autocontrollo; era un re capriccioso, impulsivo e non molto equilibrato. I cinque anni del suo regno dettero il via, fatto normale in quell'epoca, ad un alternarsi di violenze e di caritatevoli liberalità, di confische e di restituzioni di abbazie, materia non certo abituale per gli agiografi. Se Sventiboldo fu però onorato di un culto, questo fatto lo si deve a due sue figlie, Benedetta e Cecilia, nate dal suo matrimonio con Oda o Odegonda, figlia del conte di Sassonia, Ottone l'Illustre, ch'egli aveva sposata nell'897. Esse dovevano diventare, l'una dopo l'altra, badesse di Susteren, dove il loro padre era stato sepolto. Considerate come sante, venivano festeggiate il 17 agosto e il padre finì per ricevere anche lui un culto nell'abbazia. La sua festa veniva celebrata il 13 agosto Si andava in pellegrinaggio alla sua tomba e le reliquie si diceva facessero guarire il mal di denti.

Autore: Jacques Choux             Fonte:Enciclopedia dei Santi

 

 

14 AGOSTO

 

 

15 AGOSTO

Sant'Emanuele Morales Martire Messicano

 Mesillas, Zacatecas (diocesi di Durango), 8 febbraio 1898 – Chalchihuites (Messico), 15 agosto 1926

Cristiano di un sol pezzo: sposo fedele, padre affettuoso con i suoi tre figli piccoli, buon lavoratore, laico dedito all'apostolato della sua parrocchia e all'intensa vita spirituale alimentata dall'Eucarestia. Membro dell'Associazione Cattolica della Gioventù Messicana e presidente della Lega Nazionale in Difesa della Liberta Religiosa, associazione che, con mezzi pacifici, cercava di ottenere la deroga delle empie leggi. Il giorno 15 agosto 1926 quando venne a conoscenza che il Signor Parroco Batis era stato incarcerato si mosse per andare ad intercedere per la sua libertà. Aveva appena riunito un gruppo di giovani per decidere sul da farsi quando si presentò una truppa ed il capo gridò: "Manuel Morales!". Manuel fece un passo avanti e con molto garbo si presentò: "Sono io, a sua disposizione!". Lo insultarono ed iniziarono a colpirlo con ferocia. Fu portato fuori della città insieme al Parroco, e quando udì che questi chiedeva grazia per la sua vita, considerando che aveva famiglia, con audacia disse: "Signor Parroco, io muoio, ma Dio non muore, Lui si occuperà di mia moglie e dei miei figli". Poi si sollevò ed esclamò: "Viva Cristo Re e la Vergine di Guadalupe!".

Emblema: Palma

Martirologio Romano: In località Chalchihuites nel territorio di Durango in Messico, santi martiri Luigi Batis Sáinz, sacerdote, Emanuele Morales, padre di famiglia, Salvatore Lara Puente e Davide Roldán Lara, uccisi in odio alla fede durante la persecuzione messicana.

 

Dopo le grandi persecuzioni contro la Chiesa nel periodo della Rivoluzione Francese, delle leggi anticlericali dei governi italiani e francesi della seconda metà dell’Ottocento, delle sanguinose persecuzioni contro i missionari e fedeli cattolici in Cina, negli anni a cavallo fra il XIX e XX secolo; della Rivoluzione Bolscevica in Russia del 1918 e prima di arrivare negli anni 1934-1939 alla grande carneficina della Guerra Civile Spagnola, si ebbe la persecuzione in Messico dal 1915 al 1929.

Dopo la dittatura di Porfirio Diaz (1876-1911) si ebbe un periodo di rivoluzioni e di guerre civili; in quest’arco di anni, le condizioni della Chiesa nel Messico furono estremamente difficili, specialmente dopo l’entrata in vigore, il 5 febbraio 1917, della nuova Costituzione anticlericale e antireligiosa.

Il clero cattolico fu oggetto di minacce, soprusi e vessazioni da parte dei governi massonici, che si spinsero fino alla più bruta violenza e all’assassinio; in fondo si perseguitarono i preti solo perché sacerdoti.

 In un continuo succedersi di presidenti chiamati a guidare il Paese, alcuni uccisi, in preda a costanti conflitti interni, si giunse alla nomina di Plutarco Elias Calles nel 1924, questi lavorò per il risanamento economico, il rafforzamento del movimento operaio, favorì la distribuzione della terra ai contadini, ma inasprì anche la lotta contro la Chiesa, che in varie occasioni e situazioni si tramutò in una vera e propria persecuzione; i sacerdoti ed i laici cattolici vennero a scontrarsi con il più acerrimo ateismo.

Papa Giovanni Paolo II il 22 novembre 1992, beatificò nella Basilica di S. Pietro, 25 di questi perseguitati, che da sacerdoti, parroci o laici, donarono con il martirio la loro vita per la difesa della Fede e per l’affermazione della presenza della Chiesa Cattolica in Messico.

Il 21 maggio del 2000 lo stesso pontefice li ha canonizzati tutti i 25 in Piazza S. Pietro, indicando alla Chiesa Universale l’esempio della loro santità, operata in vita e coronata dal martirio finale.

Si riportano i 25 nomi:

Parroco Cristóbal Magallanes Jara - parroco Román Adame Rosales - parroco Rodrigo Aguilar Alemán - parroco Julio Alvarez Mendoza - parroco Luis Batis Sainz - sacerdote Agustín Caloca Cortés - parroco Mateo Correa Magallanes - sacerdote Atilano Cruz Alvarado - sacerdote Miguel de la Mora de la Mora - sacerdote Pedro Esqueda Ramírez - sacerdote Margarito Flores García - sacerdote José Isabel Flores Varela - sacerdote Pedro de Jesús Maldonado Lucero - sacerdote David Galván Bermudez - ragazzo Salvador Lara Puente - sacerdote Jesús Méndez Montoya - laico Manuel Morales - parroco Justino Orona Madrigal - sacerdote Sabás Reyes Salazar - parroco José María Robles Hurtado - ragazzo David Roldan Lara - sacerdote Toribio Romo Gonzáles - sacerdote Jenaro Sánchez Delgadillo - parroco David Uribe Velasco - viceparroco Tranquilino Ubiarco Robles. (La loro celebrazione collettiva è al 21 maggio).

 

Manuel Morales nacque a Mesillas, Zacatecas (diocesi di Durango) l’8 febbraio 1898, compendiò in lui tutte le virtù del laico cristiano impegnato, nella vita, nella famiglia, nell’apostolato.

Fu cristiano di un sol pezzo; sposo fedele; padre affettuoso con i piccoli tre figli; operoso lavoratore; laico dedito all’apostolato della sua parrocchia e con un’intensa vita spirituale alimentata dall’Eucaristia. Membro dell’Associazione Cattolica della Gioventù Messicana e presidente della Lega Nazionale in Difesa della Libertà Religiosa, che era un organismo, che con mezzi pacifici, cercava di ottenere la deroga delle leggi persecutorie allora in vigore.

E in questa ottica il 15 agosto 1926, quando seppe che il suo parroco di Chalchihuites, don Batis era stato messo in carcere, si attivò per intervenire per la sua liberazione; aveva appena riunito un gruppo di giovani per decidere insieme cosa fare, quando intervenne una squadra di soldati, il cui capo a voce alta chiamò: “Manuel Morales!”. Egli si fece avanti e con garbo si presentò “Sono io, a sua disposizione!”.

Venne insultato e riempito di percosse violente; poi insieme al parroco Batis, fu portato fuori la città di Chalchihuites per essere ucciso; al parroco che chiedeva grazia per la sua vita, perché aveva una famiglia, egli disse: “Signor parroco, io muoio, ma Dio non muore, Lui si occuperà di mia moglie e dei miei figli”. Poi alzando la testa esclamò: “Viva Cristo Re e la Vergine di Guadalupe!”, prima di essere fucilato, insieme al parroco Batis e ad altri due giovani collaboratori della parrocchia, Salvador Lara Puente e David Roldán Lara; aveva 29 anni.

Autore: Antonio Borrelli

Beato Aimone Taparelli Sacerdote domenicano

 Savigliano, Cuneo, 1398 - 1495

Nel giorno della solennità dell'Assunzione della beata Vergine Maria, la Chiesa ricorda, tra gli altri, anche il beato Aimone Taparelli. Taparelli, dei conti di Lagnasco, nacque a Savigliano, in Piemonte, nel 1398. Entrò nell'ordine dei Predicatori all'età di 50 anni, dopo la morte della moglie e dei figli. Fu docente all'Università di Torino, confessore di Amedeo IX duca di Savoia, inquisitore per la Lombardia superiore e la Liguria, priore del convento di Savigliano e vicario provinciale dell'ordine. Morì nel 1495 nel giorno dell'Assunta, come lui stesso aveva predetto. Dai primi dell'Ottocento i suoi resti riposano nella chiesa di San Domenico a Torino. Pio IX ne ha approvato il culto nel 1856. (Avvenire)

Etimologia: Aimone = difende la casa con la spada, dal sassone

Martirologio Romano: A Savigliano in Piemonte, beato Aimone Taparelli, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori, instancabile difensore della verità.

 

I Tapparelli, una delle famiglie più antiche di Savigliano, vantarono nei secoli ecclesiastici illustri. Nel secolo XVI il vescovo Gianmaria, nel secolo XVII un gesuita, Cesare Michele, che visse e morì santamente in America. Fra tutti spicca Aimone che nacque nel 1398, nel ramo dei Conti di Lagnasco. La sua lunga vita si sarebbe divisa esattamente a metà: a cinquant’anni la morte seminò il lutto nella sua casa e, vedovo, pianse anche la morte dei figli. Una fede profonda gli fu di conforto tanto che decise di abbracciare la vita religiosa entrando nell’Ordine dei Predicatori. Aveva già una formazione umanistica, si licenziò quindi in Teologia e in Sacra Scrittura. Fin dai primi anni s’impegnò in un intenso apostolato: fu degno figlio di san Domenico, per l’efficacia del sermoneggiare e per l’austerità della vita. Quando la chiara fama delle sue virtù arrivò alla corte sabauda, il Duca B. Amedeo IX lo volle suo predicatore e per un certo periodo confessore. Fu quindi nominato professore all’Università di Torino (lettore in Teologia). Tornò a Savigliano quando fu trucidato dagli eretici il B. Bartolomeo Cerveri (1466), succedendogli l’anno seguente nell’ufficio di inquisitore con patente del padre Antonio Ferreri inquisitore generale. Padre Aimone svolse il suo delicato ministero sul Marchesato di Saluzzo, le diocesi di Alba e Mondovì, Cherasco, Savigliano, la Liguria superiore e parte della Lombardia. Fu infaticabile nel preservare la fede cattolica, fortificato dall’esempio dei confratelli che per svolgere tale missione subirono il martirio. Nel caso del B. Antonio Pavoni dovette personalmente provvedere alla sua onorevole sepoltura.

Come difese i valori del cattolicesimo, pari fu il suo zelo nel ricondurre e confermare la disciplina in seno all’Ordine, tanto da essere ricordato tra i più ardenti riformatori del XV secolo. Amava però anche la solitudine e quando poteva si ritirava in un piccolo eremo a Verzuolo, dov’era una cappella dedicata a santa Cristina (a 860 metri di altitudine, a 5 chilometri da Saluzzo). Aimone compose vari scritti a carattere religioso e promosse il culto alla Madonna, verso cui nutrì sempre profonda devozione. Fu più volte Priore del Convento di Savigliano e Vicario Provinciale. Nel 1475 accolse nell’Ordine Peronino Sereno (m. 1524), futuro celebre cronista saluzzese e domenicano.

Quasi centenario, nel 1495, Aimone predisse la sua morte. Una pia leggenda narra che gli angeli lo avvisarono che sarebbe avvenuta per la solennità della gloriosa Assunzione della Vergine. A letto, recitando l’Ufficio, strinse al cuore il Crocifisso e, ricevuti i sacramenti, spirò pronunciando “Servire Deo regnare est”. I frati in coro leggevano l’introito della messa solenne. Con stento gli tolsero dalle mani il crocifisso mentre già una folla si era radunata presso il convento. Fu sepolto nel coro, in un sepolcro nuovo, dove i fedeli, che presto vollero sue reliquie, potevano recarsi a pregare. Alcuni portarono tavolette di cera quali ex voto. Di due miracoli straordinari è rimasta memoria: la guarigione da cancro alla mamella di una donna e il concepimento di un bambino, in tarda età, di una coppia creduta sterile. Erano della Casata dei Genola e il neonato, cui fu dato il nome Aimone, diverrà un illustre studioso. Fin dalle prime raffigurazioni Aimone Taparelli venne effigiato con i raggi da beato. Al principio del XIX° secolo i suoi resti furono portati a San Domenico di Torino. Il beato Pio IX, il 29 maggio 1856, ne approvò il culto fissandone la memoria al 17 agosto.

Autore: Daniele Bolognini

 

San Costantino Brancoveanu Principe di Valacchia, martire

 15 agosto (Chiese Orientali)

Tirgoviste (Romania), 15 agosto 1654 – Costantinopoli, 15 agosto 1714

Una delle più belle figure della storia cristiana di Romania, morto martire per mano dei turchi, insieme ai quattro figli maschi Costantin, Stefan, Radu, Matei e al dignitario di corte Ianachi Vacaresco.

Nato il 15 agosto 1654 a Tirgoviste, allora capitale della Valacchia, Costantino Brancoveanu fu un voivoda (principe danubiano) patriota nel senso più ampio del termine, nei suoi quasi 26 anni di regno, si preoccupò della libertà della sua patria, dell’uguaglianza e benessere del suo popolo, della libertà e difesa della religione cristiana dei romeni di Transilvania, Moldavia, Valacchia.

Ancora prima di essere eletto principe (voivoda) di Valacchia nel 1688, fu impegnato nella difesa dei diritti e della libertà religiosa dei romeni di Transilvania, allora aggregata all’Impero Asburgico, affinché fosse riconosciuta loro la possibilità di conservare e praticare la propria fede ortodossa.

Diventato principe governante di Valacchia (Principato autonomo agli inizi del secolo XIV, fu dominio dei Turchi dal 1526, occupata dall’Austria nel 1723, tornò alla Turchia nel 1739; dal 1861 fu unita alla Moldavia gettando le basi per l’unità della Romania), nel 1769 ricevé il titolo di “Nobile di Transilvania” e di “Conte di Ungheria”.

Animato da princìpi cristiani, Costantino mise in atto la politica della negoziazione diplomatica, instaurando relazioni personali con i capi di Stato di allora; fu uomo di profonda formazione umanistica, politica e religiosa, divenne famoso come “principe cristiano e difensore della pace e della religione cristiana”.

Riuscì a far liberare il metropolita ortodosso Sava Brancovici, incarcerato per ordine imperiale; iniziò la costruzione del monastero di Hurezi.

Nel 1695 si meritò il titolo di “Principe del Santo Impero” e di “Illustrissimus”. Dotato di spirito ecumenico, con abilità cercò la concordia con gli Stati confinanti, per la difesa delle Chiese e tradizioni cristiane, di fronte alla minaccia per tutti dei turchi; grazie alla sua onestà e diplomazia aveva discrete relazioni con l’Impero Ottomano dominante.

Nel 1700 instaurò buone relazioni con lo zar di Russia Pietro il Grande, riuscendo così a perorare la causa della liberazione dei popoli balcanici, occupati dai turchi.

In campo religioso, Costantino Brancoveanu, pregava tre volte al giorno con tutti i familiari; la su famiglia era stata allietata dalla nascita di quattro figli maschi, Costantin, Stefan, Radu, Matei e di una figlia e in essa regnava l’armonia, il rispetto e un sentimento profondamente cristiano; il principe passava lunghi periodi in preghiera e meditazione, sia in chiesa sia nella cappella privata.

Come già accennato, il principe Costantino Brancoveanu era soggetto all’Impero Ottomano, dal quale la Valacchia era dominata e tributaria e nel 1703 ormai malato e non più in grado di pagare la sempre più elevata somma di danaro in oro, richiesta periodicamente dai Turchi, fu convocato ad Adrianopoli in Turchia, alla “Sublime Porta” (governo del sultano ottomano).

In sua assenza però il comandante dell’esercito Toma Cantacuzeno, tradì il principe passando apertamente dalla parte dei russi, sempre in conflitto con i turchi, accusandolo di tradimento davanti allo zar Pietro il Grande (1672-1725).

Il principe Costantino venne così a trovarsi in balia dei turchi che l’accusarono di intrattenere relazioni segrete con le potenze europee di allora, inoltre di aver accumulato per sé e la sua famiglia una gran quantità di oro, invece di pagare il tributo all’Impero Ottomano; il suo segretario, il fiorentino Del Chiaro raccontò i particolari del seguito della vicenda.

In realtà Costantino aveva in quegli anni usato molta diplomazia sia con i Turchi dominanti, sia con i Russi interessati a cacciarli dai Balcani, così pure con i polacchi ed i veneziani, ma alla fine si inimicò sia gli uni che gli altri, anche se non per colpa sua; cosicché si aspettava una vendetta ottomana contro di lui.

Così il 17 marzo 1714 martedì della Settimana Santa, si presentò a lui, il dignitario turco Mustafa Aga con 12 ufficiali armati, dicendo di essere di passaggio per raggiungere la Moldavia.

 Costantino lo ricevette con cortesia nella sala del trono, alla presenza dei boiari (nobili cortigiani latifondisti); ma qui Mustafa Aga lesse il decreto della ‘Porta’, che lo deponeva dal governo del Principato di Valacchia e l’ordine di condurlo con tutta la famiglia a Costantinopoli; due giorni dopo, ignorando l’opposizione dei boiari, i turchi designarono principe di Valacchia Stefano Cantacuzeno, cugino del deposto Costantino.

Il 27 marzo 1714, sotto lo sguardo in lacrime degli abitanti di Bucarest la nuova capitale, la famiglia del principe, si avviò sotto scorta verso Costantinopoli, giungendovi tre settimane dopo, qui furono rinchiusi nei sotterranei di Fornetta e torturati, affinché rivelassero il supposto nascondiglio dell’oro.

Per quattro mesi, i detenuti romeni subirono ogni sorta di maltrattamenti, incitati fra l’atro a passare alla religione islamica in cambio dell’amnistia.

Ma il principe Costantino, i suoi familiari e il dignitario di corte Ianachi Vacaresco, rifiutarono con convinzione, rimanendo saldi nella fede cristiana.

A questo punto la famiglia Brancoveanu fu condannata a morte e la data dell’esecuzione fu fissata per il 15 agosto 1714, giorno del 60° compleanno del principe.

Venuto il giorno, con addosso solo una camicia e scalzi, Costantino, i quattro figli e il dignitario Vacaresco, furono portati per le strade di Costantinopoli affollate di gente.

Erano presenti all’esecuzione il sultano Ahmed III (1703-1730), il Gran Visir Gin Alì e gli ambasciatori delle grandi Potenze europee (forse a titolo di ammonimento da parte dei turchi); giunti sul luogo dell’esecuzione, fu concesso loro di dire una preghiera; il  segretario Del Chiaro ci riporta le parole del principe Costantino: “Figli miei, siate forti, abbiamo perso tutto quello che avevamo in questo mondo, salviamo perlomeno le nostre anime e purifichiamoci dai nostri peccati col nostro sangue”.

Furono decapitati e i loro corpi senza le teste furono gettati nelle acque del Bosforo; le teste dopo essere state esposte per le strade di Costantinopoli appese a dei lunghi pali, fecero poi la stessa fine.

La moglie di Costantino, donna Maria, insieme alla nuora, al genero e il nipote, incarcerati anche loro a Fornetta, si salvarono miracolosamente e ritornarono in Valacchia nel 1716.

I corpi dei martiri romeni furono recuperati dalle onde dai cristiani di Costantinopoli e seppelliti a cura del Patriarcato Ecumenico, nella chiesa del Monastero della Madre di Dio, nell’isola di Halki; monastero a suo tempo sostenuto economicamente dal principe Costantino.

La principessa Maria, nel 1720 fece trasportare segretamente le reliquie dei familiari a Bucarest e tumulate nella chiesa di S. Giorgio Nuovo.

Nel 1992 il Sinodo della Chiesa Romena, ha canonizzato il principe come santo e martire.

Autore: Antonio Borrelli

 

 

16 AGOSTO

Santo Stefano di Ungheria Re

 Esztergom, Ungheria, ca. 969 - Budapest, Ungheria, 15 agosto 1038

Di nobilissima famiglia, e gli ricevette da bambino una profonda educazione cristiana. Consacrato re d'Ungheria nella notte di Natale dell'anno mille con il titolo di "re apostolico", organizzò non solo la vita politica del suo popolo, riunendo le 39 contee in unico regno, ma anche quella religiosa gettando le fondamenta di una solida cultura cristiana. Egli divise il territorio in diocesi, eresse chiese monasteri, fra cui quello famoso di San Martino di Pannonhalma, ed appoggiò il clero servendosi come collaboratori di Benedettini di Cluny. Aveva sposato una principessa, Gisella di Baviera, che lo sostenne nella sua opera e che alla sua morte si richiuse nel monastero benedettino di Passau.

Etimologia: Stefano = corona, incoronato, dal greco

Martirologio Romano: Santo Stefano, re d’Ungheria, che, rigenerato nel battesimo e ricevuta da papa Silvestro II la corona del regno, si adoperò per propagare la fede cristiana tra gli Ungheresi: riordinò la Chiesa nel suo regno, la arricchì di beni e di monasteri, fu giusto e pacifico nel governare i sudditi, finché a Székesfehérvár in Ungheria, nel giorno dell’Assunzione, la sua anima salì in cielo.

 

Nell’anno 983 venne consacrato vescovo di Praga Adalberto, un personaggio dietro al cui nome germanico si celava in realtà un autentico slavo, Voytech, appartenente a una nobile famiglia della Boemia. Quando la principessa Adelaide gli chiese di inviare missionari in terra ungherese, egli finì per unirsi a loro e a lungo si è sostenuto che proprio ad Adalberto si dovesse la conversione del principe magiaro Geza, che  venne da lui battezzato nel 985 insieme al figlio Vajk, al quale fu imposto il nome di Stefano e che diventerà il vero artefice della definitiva cristianizzazione dell’Ungheria.

In verità, gli storici, di recente, hanno manifestato seri dubbi circa il fatto che sia stato Sant’Adalberto ad amministrare il battesimo a Stefano, al quale fu imposto tale nome assai probabilmente in onore del santo protomartire patrono della diocesi di Passavia, che svolse un ruolo decisivo nella conversione di Geza e delle genti magiare.

 

Fondatore della chiesa ungherese

Stefano nacque fra il 969 e il 975, intorno al 995-996 sposò Gisella, figlia del Duca di Baviera e nel 997 succedette al padre sul Trono d’Ungheria. Ciò lo costrinse a un’aspra guerra contro un altro pretendente alla Corona, e nel 1000 Papa Silvestro II, con il beneplacito dell’Imperatore Ottone III, gli fece pervenire le insegne regali: nel Natale di quello stesso anno Stefano fu consacrato e incoronato primo Re di Ungheria.

Tra i più importanti provvedimenti da lui adottati, vi fu quello riguardante la strutturazione della Chiesa ungherese: a questo proposito la tradizione gli attribuisce la creazione di dieci diocesi e la fondazione e il consolidamento di numerose abbazie, tra le quali spicca quella benedettina di Pannonhalma.

Egli stabilì poi che venisse costruita una chiesa comune ogni dieci villaggi. La cristianizzazione del popolo ungherese operata dal santo re si effettuò nel segno della riforma cluniacense. Per altro egli si mantenne in corrispondenza con l’abate di Cluny Odilo.

Inoltre, Stefano fece venire dall’estero molti ecclesiastici, affinché collaborassero alla sua opera di evangelizzazione: il più famoso di questi fu san Gerardo, proveniente da Venezia, che diventò vescovo e che perse la vita in seguito a una rivolta pagana.

Stefano ebbe massimamente a cuore la sicurezza dei pellegrini che si recavano in Terra Santa: rese meno precario il loro cammino lungo le terre balcaniche e fece costruire a Gerusalemme un alloggio per gli ungheresi che là si recavano.

È opportuno ricordare che la nuova chiesa da lui creata, con le scuole erette presso i capitoli e i chiostri, pose la basi dell’insegnamento in Ungheria. Stefano si dimostrò pure un valente sovrano, capace di rafforzare il suo regno e di condurre un’equilibrata politica estera.

Il santo re morì nel 1038 e fu canonizzato nel 1083, dopo che il nuovo sovrano Ladislao si era fatto protettore del suo culto, presentandosi così come il suo erede spirituale e una sorta di secondo fondatore del regno cristiano d’Ungheria.

La canonizzazione sarebbe avvenuta per ordine del papa Gregorio VII e alla presenza di un suo legato. Particolarmente  interessante risulta il fatto che Stefano fu il primo sovrano medievale a essere santificato come “confessore” e non come martire, a motivo dei meriti religiosi da lui acquistati durante la vita: in Stefano la figura del re giusto si fonde con quella del santo cristiano e ciò rappresentò subito la chiara dimostrazione che un sovrano può diventare santo al fianco della Chiesa.

 

Un culto sempre vivo nella devozione degli ungheresi

La Legenda maior che lo riguarda fa di Stefano un autentico soldato di Cristo, sempre assistito da una schiera di santi: non bisogna dimenticare a questo proposito che anche la moglie Gisella, che negli ultimi anni di vita divenne badessa di un monastero benedettino bavarese, è annoverata tra i santi e le sue reliquie sono ancora oggi assai venerate e meta di continui pellegrinaggi.

Vi sono poi una Legenda Minor, che ci tramanda l’immagine di un re Stefano energico e rigoroso, e una terza leggenda, che potrebbe essere stata composta dal vescovo di Gyor Arduino, la quale aggiunge numerosi particolari sulla vita e l’opera di Stefano: per esempio, in essa si  racconta come il santo re, in punto di morte, avesse offerto il proprio regno alla Vergine Maria.

La novità più significativa contenuta in questa leggenda di Arduino è rappresentata dal racconto della canonizzazione del 1083. Il culto di Santo Stefano non si è mai appannato nel corso dei secoli e ancora oggi è assai vivo in Ungheria: la sua festa è la più importante e la più sentita dal popolo magiaro, che la celebra con particolare partecipazione. L’iconografia di Stefano è assai ricca: egli vi appare sempre come il re saggio, magnanimo e devoto.

Autore: Maurizio Schoepflin

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Padre e figlio battezzati insieme: sono Geza, principe dei Magiari, e suo figlio Vaik, che prende il nome di Stefano; l’anno è il 973/974. Ancora pochi decenni prima, i Magiari o Ungari atterrivano l’Europa con le loro micidiali spedizioni di preda, troncate poi nel  955, con una strage, dal futuro imperatore Ottone I di Sassonia. Geza avvia un’opera di enorme difficoltà: radicare nella terra questo popolo che vi era stato sempre attendato; sostituire la tenda con la casa, il lavoro nelle terre proprie al saccheggio di quelle altrui. Morto lui, tocca a Stefano l’impresa di dare agli Ungari uno Stato con indipendenza garantita. Qui è fondamentale l’aiuto di Silvestro II, il papa dell’anno Mille, che si fa patrono dell’Ungheria con un segno chiarissimo: manda a Stefano da Roma la corona regia, insieme al titolo di “re apostolico” (che durerà fino alla caduta dell’Impero austroungarico, nel 1918).

L’opera di Stefano richiederebbe lo sforzo di generazioni: è duro sostituire il nomadismo con la stabilità. Il re deve inventare un’amministrazione dello Stato, e si ispira al modello occidentale dei “comitati” o contee; sviluppa ancora l’opera di suo padre per la diffusione del cristianesimo, creando subito una struttura di vescovadi e di monasteri (questi, con la regola di Cluny) e tenendo d’occhio personalmente la disciplina del clero. Buoni successi ottengono i missionari cechi, molto popolari (sono compatrioti del grande Adalberto di Praga, che ha dato la cresima a Stefano). Stefano si rivela un sovrano avanzato per il suo tempo anche con le Admonitiones, che sono un apprezzato vademecum del buongoverno.

Ma deve fare i conti con resistenze durissime alla sua legislazione e al suo sforzo per una cristianizzazione rapida. Ha contro di sé anche alcuni parenti, che aspettano soltanto la sua morte per ribellarsi. E Stefano non ha un erede diretto, perché il suo unico figlio, Emerico, è morto in giovanissima età.

Morendo, designa allora a succedergli un mezzo italiano, suo nipote dal lato materno: Pietro Orseolo, figlio del doge veneziano Pietro II. Il nuovo Stato ungherese c’è, e fra gli alti e bassi della storia vedrà compiersi il suo primo millennio. Ma alla morte di Stefano incomincia una stagione torbida, per motivi politici e per motivi religiosi. Il nuovo re Pietro Orseolo, poco dopo la proclamazione, viene già spodestato. Recupera poi il trono con l’aiuto tedesco, e infine nel 1046, ancora sconfitto, sarà accecato e ucciso. Le lotte continuano in varie parti del Paese, anche con l’uccisione di missionari cristiani, tra cui quella di san Gerardo e dei suoi compagni. Ma al ritorno della tranquillità il cristianesimo è già profondamente radicato in gran parte del Paese. Nell’anno 1083 (nel giorno in cui si festeggia l’Assunta da lui venerata), re Stefano viene canonizzato insieme al figlio Emerico.

Autore: Domenico Agasso      Fonte:Famiglia Cristiana

 

Beati Simone e Maddalena Bokusai Kyota, Tommaso e Maria Gengoro, e Giacomo Gengoro Martiri

 + Kokura, Giappone, 16 agosto 1620

Martirologio Romano: A Kokura sempre in Giappone, beati martiri Simone Bokusai Kyota, catechista, e Maddalena, coniugi, Tommaso Gengoro e Maria, anch’essi coniugi, e il piccolo Giacomo, loro figlio, che, per decreto del prefetto Yetsundo, furono crocifissi insieme a testa in giù in odio al nome di Cristo.

 

Simone Bocousai Kiota e Maddalena sua sposa, Tommaso Ghengoro, Maria sua sposa e Giacomo loro figlio, sotto l’accusa di aver insegnato la dottrina cristiana nonostante gli editti dell’imperatore, furono condannati a essere crocifissi a testa in giù, come s. Pietro, da Yetsoundo, governatore di Concoura, capitale del Bougen. L’esecuzione ebbe inizio il 16 agosto 1620. due ore dopo la levata del sole. Simone e Maddalena, essendo alquanto avanzati in età, spirarono il giorno dopo, verso sera; Maria resistette più a lungo, sebbene non si sappia quanto; Tommaso e Giacomo, poiché erano ancor vivi dopo tre giorni, ebbero i fianchi trapassati a colpi di lancia. I loro corpi vennero bruciati e le ceneri sparse al vento. La beatificazione ebbe luogo nel 1867. Sono commemorati il 16 agosto.

Autore: Pietro Burchi      Fonte:Enciclopedia dei Santi

 

Santa Serena di Roma Imperatrice

 Roma, inizio IV secolo

Fino alla precedente edizione del ‘Martyrologium Romanum’, s. Serena, presunta sposa dell’imperatore Diocleziano (243-313) era inserita come celebrazione al 16 agosto, come in precedenza l’aveva inserita Adone († 875) arcivescovo di Vienne, nel suo ‘Martirologio’ e di seguito nei Martirologi successivi, fino al ‘Romano’ sopra citato.

Nell’odierna edizione, essa non è più menzionata, il perché scaturisce dalla grande incertezza che la riguarda come sposa di Diocleziano, infatti Lattanzio (Lucio Cecilio, III-IV sec.) scrittore latino cristiano che visse al tempo ed alla corte di Diocleziano, afferma nel suo “De mortibus persecutorem” che la moglie e la figlia si chiamavano Prisca e Valeria e che furono costrette a fare riti pagani.

Mentre i leggendari “Atti” di s. Marcello e di santa Susanna, parlano invece di un’imperatrice di nome Serena, moglie di Diocleziano, che intervenne per difendere i cristiani dalla persecuzione scatenata dal marito, la decima e la più violenta. Evidentemente il suo intervento fu proficuo, riguardo il termine della persecuzione, perché nel 305 Diocleziano abdicò e si ritirò a Spalato.

Probabilmente dall’antichità, venne considerata per questo, una figura santa da venerare, senz’altro con evidente esagerazione.

Autore: Antonio Borrelli

 

 

17 AGOSTO

 

 

18 AGOSTO

Sant'Elena Madre di Costantino

 Drepamim (Bitinia), III sec. – ? † 330 ca.

Di famiglia plebea, Elena venne ripudiata dal marito, il tribuno militare Costanzo Cloro, per ordine dell'imperatore Diocleziano. Quando il figlio Costantino, sconfiggendo il rivale Massenzio, divenne padrone assoluto dell'impero, Elena, il cui onore venne riabilitato, ebbe il titolo più alto cui una donna potesse aspirare, quello di «Augusta». Fu l'inizio di un'epoca nuova per il cristianesimo: l'imperatore Costantino, dopo la vittoria attribuita alla protezione di Cristo, concesse ai cristiani la libertà di culto. Un ruolo fondamentale ebbe la madre Elena: forse è stata lei a contribuire alla conversione, poco prima di morire, del figlio. Elena testimoniò un grande fervore religioso, compiendo opere di bene e costruendo le celebri basiliche sui luoghi santi. Ritrovò la tomba di Cristo scavata nella roccia e poco dopo la croce del Signore e quelle dei due ladroni. Il ritrovamento della croce, avvenuta nel 326 sotto gli occhi della pia Elena, produsse grande emozione in tutta la cristianità. A queste scoperte seguì la costruzione di altrettante basiliche, una delle quali, sul monte degli Olivi, portò il suo nome. Morì probabilmente intorno al 330. (Avvenire)

 Etimologia: Elena = la splendente, fiaccola, dal greco

Martirologio Romano: A Roma sulla via Labicana, santa Elena, madre dell’imperatore Costantino, che si adoperò con singolare impegno nell’assistenza ai poveri; piamente entrava in chiesa mescolandosi alle folle e in un pellegrinaggio a Gerusalemme alla ricerca dei luoghi della Natività, della Passione e della Risurrezione di Cristo onorò il presepe e la croce del Signore costruendo venerande basiliche.

 

 Nell’iconografia, specie orientale, sant’Elena è raffigurata spesso insieme al figlio l’imperatore Costantino e ambedue posti ai lati della Croce. Perché il grande merito di Elena fu il ritrovamento della Vera Croce e di Costantino il merito di aver data libertà di culto ai cristiani, che per trecento anni erano stati perseguitati ed uccisi a causa della loro fede.

Di Elena i dati biografici sono scarsi, nacque verso la metà del III secolo forse a Drepamim in Bitinia, cittadina a cui fu dato il nome di Elenopoli da parte di Costantino, in onore della madre.

Elena discendeva da umile famiglia e secondo s. Ambrogio, esercitava l’ufficio di ‘stabularia’ cioè locandiera con stalla per gli animali e qui conobbe Costanzo Cloro ufficiale romano, che la sposò nonostante lei fosse di grado sociale inferiore, diventando così moglie ‘morganatica’.

Nel 280 ca. a Naisso in Serbia, partorì Costantino che allevò con amore; ma nel 293 il marito Costanzo divenne ‘cesare’ e per ragioni di Stato dovette sposare Teodora, figliastra dell’imperatore Massimiano Erculeo; Elena Flavia fu allontanata dalla corte e umilmente rimase nell’ombra.

Il figlio Costantino venne allevato alla corte di Diocleziano (243-313) per essere educato ad un futuro di prestigio; in virtù del nuovo sistema politico della tetrarchia, nel 305 Costanzo Cloro divenne imperatore e Costantino lo seguì in Britannia nella campagna di guerra contro i Pitti; nel 306 alla morte del padre, acclamato dai soldati ne assunse il titolo e il comando.

Divenuto imperatore, Costantino richiamò presso di sé Elena sua madre, dandole il titolo di ‘Augusta’, la ricoprì di onori, dandole libero accesso al tesoro imperiale, facendo incidere il suo nome e la sua immagine sulle monete.

Di queste prerogative Elena Flavia Augusta ne fece buon uso, beneficò generosamente persone di ogni ceto e intere città, la sua bontà arrivava in soccorso dei poveri con vesti e denaro; fece liberare molti condannati dalle carceri o dalle miniere e anche dall’esilio.

Fu donna di splendida fede e quanto abbia influito sul figlio, nell’emanazione nel 313 dell’editto di Milano che riconosceva libertà di culto al cristianesimo, non ci è dato sapere.

Ci sono due ipotesi storiche, una di Eusebio che affermava che Elena sia stata convertita al cristianesimo dal figlio Costantino e l’altra di s. Ambrogio che affermava il contrario; certamente deve essere stato così, perché Costantino ricevé il battesimo solo in punto di morte nel 337.

Ad ogni modo Elena visse esemplarmente la sua fede, nell’attuare le virtù cristiane e nel praticare le buone opere; partecipava umilmente alle funzioni religiose, a volte mischiandosi in abiti modesti tra la folla dei fedeli; spesso invitava i poveri a pranzo nel suo palazzo, servendoli con le proprie mani.

Tenne un atteggiamento prudente, quando ci fu la tragedia familiare di Costantino, il quale nel 326 fece uccidere il figlio Crispo avuto da Minervina, su istigazione della matrigna Fausta e poi la stessa sua moglie Fausta, sospettata di attentare al suo onore.

E forse proprio per questi foschi episodi che coinvolgevano il figlio Costantino, a 78 anni nel 326, Elena intraprese un pellegrinaggio penitenziale ai Luoghi Santi di Palestina.

 Qui si adoperò per la costruzione delle Basiliche della Natività a Betlemme e dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi, che Costantino poi ornò splendidamente.

La tradizione narra che Elena, salita sul Golgota per purificare quel sacro luogo dagli edifici pagani fatti costruire dai romani, scoprì la vera Croce di Cristo, perché il cadavere di un uomo messo a giacere su di essa ritornò miracolosamente in vita.

Questo episodio leggendario è stato raffigurato da tanti artisti, ma i più noti sono i dipinti nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme di Roma e nel famoso ciclo di S. Francesco ad Arezzo di Piero della Francesca.

Insieme alla Croce furono ritrovati anche tre chiodi, i quali furono donati al figlio Costantino, forgiandone uno nel morso del suo cavallo e un altro incastonato all’interno della famosa Corona Ferrea, conservata nel duomo di Monza.

L’intento di Elena era quello di consigliare al figlio la moderazione ed indicargli che non c’è sovrano terreno che non sia sottoposto a Cristo; inoltre avrebbe indotto Costantino a costruire la Basilica dell’Anastatis, cioè della Resurrezione.

Elena morì a circa 80 anni, assistita dal figlio, verso il 329 in un luogo non identificato; il suo corpo fu però trasportato a Roma e sepolto sulla via Labicana “ai due lauri”, oggi Torpignattara; posto in un sarcofago di porfido, collocato in uno splendido mausoleo a forma circolare con cupola.

 Fu da subito considerata una santa e con questo titolo fu conosciuta nei secoli successivi; i pellegrini che arrivavano a Roma non omettevano di visitare anche il sepolcro di s. Elena, situato tangente al portico d’ingresso della Basilica dei Santi Marcellino e Pietro.

Il grandioso sarcofago di porfido fu trasportato nell’XI secolo al Laterano e oggi è conservato nei Musei Vaticani. Il suo culto si diffuse largamente in Oriente e in Occidente, l’agiografo Usuardo per primo ne inserì il nome nel suo ‘Martirologio’ al 18 agosto e da lì passò nel ‘Martirologio Romano’ alla stessa data; in Oriente è venerata il 21 maggio insieme al figlio s. Costantino imperatore.

Gli strumenti della Passione da lei ritrovati, furono custoditi e venerati nella Basilica romana di S. Croce in Gerusalemme, da lei fatta costruire per tale scopo, le sue reliquie hanno avuto una storia a parte, già dopo due anni dalla sepoltura a Roma, il corpo fu trasferito a Costantinopoli e posto nel mausoleo che l’imperatore aveva preparato per sé.

Poi le notizie discordano, una prima tradizione dice che nell’840 il presbitero Teogisio dell’abbazia di Hauvilliers (Reims) trasferì le reliquie in Francia; una seconda tradizione afferma che verso il 1140 papa Innocenzo II le trasferì nella Basilica romana dell’Aracoeli e infine una terza tradizione dice che il canonico Aicardo le portò a Venezia nel 1212.

È probabile che il percorso sia stato Roma - via Labicana, poi Reims e dopo la Rivoluzione Francese le reliquie siano state definitivamente collocate nella Cappella della Confraternita di S. Croce nella chiesa di Saint Leu di Parigi; qualche reliquia deve essere giunta negli altri luoghi dell’Aracoeli a Roma e a Venezia.

S. Elena è la santa patrona di Pesaro e Ascoli Piceno, venerata con culto speciale anche in Germania, a Colonia, Treviri, Bonn e in Francia ad Elna, che in origine si chiamava “Castrum Helenae”.

Inoltre è considerata la protettrice dei fabbricanti di chiodi e di aghi; è invocata da chi cerca gli oggetti smarriti; in Russia si semina il lino nel giorno della sua festa, affinché cresca lungo come i suoi capelli.

Nel più grande tempio della cristianità, S. Pietro in Vaticano, s. Elena è ricordata con una colossale statua in marmo, posta come quelle di s. Andrea, la Veronica, s. Longino, alla base dei quattro enormi pilastri che sorreggono la cupola di Michelangelo e fanno da corona all’altare della Confessione, sotto il quale c’è la tomba dell’apostolo Pietro.

Autore: Antonio Borrelli

 

 

19 AGOSTO

Oggi si celebra Santa Sara, grande esempio di donna e moglie. Poi si ricorda anche San Sebaldo che sembra si sia sposato, ma divenne eremita dopo solo 1 giorno di matrimonio. Una curiosità sulla diffusione della sua devozione a Norimberga: circa 600 anni dopo la sua morte a Norimberga TUTTI i cittadini portavano nome Sebaldo!!!

Santa Sara Moglie di Abramo

Con l'uscita di Abram da Carran prende avvio la vicenda che porterà alla costituzione del popolo eletto (Gen 13). In questo capitolo di avvio della storia di Israele la moglie di Abramo, Sara, gioca un ruolo fondamentale nella costruzione della discendenza eletta e del compimento della promessa di un Dio che cammina con gli uomini. «Principessa» è il significato del nome di Sara e la sua regalità sarà il segno della presenza di Dio. In Sara, infatti, si  realizza la promessa di una discendenza ad Abramo: dopo aver concepito da Agar il figlio Ismaele, illegittimo, il patriarca chiede a Dio un figlio da Sara. La fede di Abramo troverà un segno proprio nella promessa di un figlio dalla moglie ormai anziana. Nascerà così Isacco, il «figlio del riso», poiché Sara aveva riso ascoltando la promessa. Al capitolo 23 del libro della Genesi si legge: «Abramo seppellì Sara, sua moglie, nella caverna del campo di Macpela di fronte a Mamre, cioè Ebron, nel paese di Canaan». Anche dopo la morte, quindi, Sara si lega a una promessa di Dio: quella di una terra promessa. (Avvenire)

Etimologia: Sara = principessa, signora, dall'ebraico

 

Nel rituale del sacramento del Matrimonio, la splendida benedizione nuziale augura alla sposa di essere “amabile come Rachele, saggia come Rebecca, longeva e fedele come Sara”. Nelle Chiese cattoliche ed ortodosse di tradizione bizantina i loro nomi sono associati a quelli dei loro mariti, quali esemplari coppie dell’Antico Testamento. Il nome di Sara significava in ebraico “principessa” e proprio come una principessa Abramo la volle con se, ciò nonostante ella fosse sua sorellastra da parte paterna.

 Sara condivise così tutte le avventure del santo patriarca, dalla vocazione a Ur sino alla morte in terra di Canaan. Il libro della Genesi pone in evidenza solo quegli eventi direttamente correlati alla formazione del popolo di Dio, essendo lei strumento privilegiato delle promesse che Dio formulò ad Abramo, la cui discendenza numerosa quanto le stelle sarebbe nata proprio da questa donna sterile ed ormai sessantacinquenne. Dio le mutò il nome da Sarai, cioè “mia principessa”, in Sara, dunque “principessa”. La sua straordinaria bellezza fu motivo del rapimento architettato prima dal faraone e poi da Abimelec in Gerar, ma Dio la protesse nel suo onore. Dette in sposa ad Abramo la sua schiava egiziana, Agar, auspicando che per mezzo di lei avesse potuto realizzarsi la promessa divina. Ben presto si accorse però dell’alterigia e del disprezzo provati dalla donna, madre di Ismaele, iniziò a maltrattarla sino a costringerla a fuggire.

Ben venticinque anni dopo l’uscita da Ur, all’età di novant’anni concepì miracolosamente il figlio Isacco, ma non tollerando che quest’ultimo divenisse coerede con il fratellastro Ismaele, costrinse Abramo a cacciare di casa Agar e suo figlio. Nel commovente episodio del sacrificio di Isacco, Sara non compare, anche se è facile immaginare come ne soffrisse sicuramente molto. Alla veneranda età di centoventisette anni Sara lasciò questa terra, morendo presso Ebron (odierna Qiriat Arba), e trovò sepoltura nella spelonca doppia di Macpela difronte a Mamre, tomba comune di Abramo, Isacco, Giacobbe, Rebecca e Lia.

 La Bibbia evidenzia di questo celeberrimo personaggio femminile la straordinaria bellezza, la longevità, la fedeltà ad Abramo e la fede in Dio che la rese sua degna sposa. Le Sacre Scritture non danno invece particolare peso ai non pochi lati oscuri della sua esistenza, debolezze umane da giudicarsi nel quadro generale dell’Antico Testamento, tempo di imperfezione. Ciò contribuisce comunque a porre la figura di Sara al di sotto di quella di Abramo. Tra i difetti di Sara troviamo innanzi tutto l’atteggiamento verso la sua emula, Agar, pur trasgredendo così le leggi del tempo secondo cui era vietato allontanare la seconda moglie dopo che la prima aveva generato figli. Sara dubitò inoltre talvolta della promessa di Dio di vincere la sua vecchiaia e la sua sterilità donando così ad Abramo la posterità predetta.

S  an Pietro, nei sacri scritti a lui attribuiti, censisce Sara tra le sante donne che speravano in Dio, che pur adornandosi erano comunque soggette ai loro mariti ed operavano il bene coltivando la loro spiritualità interiore, e considera Sara madre di tutte le credenti, come Abramo lo è per gli uomini. L’apostolo Paolo menziona Sara in più passi ed in particolare nella Lettera ai Galati, ove sottolinea il tipico significato di Sara ed Isacco, Agar ed Ismaele.

Sara è stata infine decisamente sfortunata in duemila anni di cristianesimo sul piano cultuale. Al contrario di Abramo, che il Martirologio Romano commemora al 9 ottobre, la sua sposa non figura in alcun calendario latino od Orientale, ma solo la Chiesa Copta ha fissato per la sua festa la data del 19 agosto. Indirettamente Santa Sara è festeggiata dalla Chiesa Cattolica, in quanto al 24 dicembre sono festeggiati tutti i santi antenati di Gesù Cristo. In questi ultimi tempi è comunque aumentata la produzione iconografica da parte di diverse Chiese volta a raffigurare Sara con l’aureola della santità.

Autore: Fabio Arduino

 

San Sebaldo (Sinibaldo) Eremita

 Norimberga, X - XI sec.

Patronato: Norimberga

Martirologio Romano: A Norimberga nella Franconia in Germania, san Sebaldo, eremita.

 

È il santo patrono di Norimberga in Germania, ma del quale vi sono pochissime notizie certe; si ignora da dove venisse, chi fosse e quando visse e della sua vita i contemporanei non scrissero nulla.

Probabilmente esiste una relazione tra la sua persona e la fondazione della città di Norimberga, per cui la sua vicenda terrena si può inquadrarla fra il X e l’XI secolo.

S. Sebaldo o Sinibaldo è menzionato per la prima volta negli “Annales” di Lamberto di Hersfeld (1005-1080), cronista tedesco e monaco benedettino, secondo il quale il culto per il santo si era diffuso nel 1072 a Norimberga a seguito di parecchie miracolose guarigioni.

La città era diventata meta di pellegrinaggi, per la tomba del santo che si trovava in una cappella situata sotto il castello imperiale; questo affluire di pellegrini, contribuì a valorizzare la piccola località di Norimberga.

A queste poche notizie che classificano Sebaldo come eremita, bisogna aggiungere le varie leggende che nel tempo si sono affermate nella devozione dei fedeli tedeschi.

Una che lo pone intorno al 1056 come contemporaneo dell’imperatore Enrico III, lo dice originario della Franconia, fece un pellegrinaggio in Italia e poi prese a predicare a Norimberga operando alcuni miracoli.

Altre leggende danno notizie di Sebaldo come un nobile francese che incontrò in Italia i santi Willibaldo († 787) e Wunibaldo († 761) e operò miracoli attraversando Ratisbona.

Poi ancora posizionandolo nell’VIII secolo a causa dell’incontro con i due santi sopra citati, viene considerato come figlio del re di Danimarca, che aveva due figli di nome ‘Syvaldus’.

Ancora si crede che studiò a Parigi sposando una principessa francese, che abbandonò però la prima notte, per vivere da eremita. Quindici anni più tardi si dice che fece un pellegrinaggio a Roma, dove ricevé dal papa l’incarico di una missione; visse poi i suoi ultimi anni in un bosco presso Norimberga.

Secondo il giudizio dello studioso Meisterlin del 1483, si pensa che Sebaldo sia stato un monaco o un sacerdote e per questo è annoverato nei Martirologi dell’Ordine dei Benedettini; dal secolo XVIII si è cominciato a collocare il santo presso la Cappella di Altenfurt a sud-est di Norimberga, come luogo del suo eremitaggio.

Sebaldo in definitiva, è legato allo svilupparsi della città di Norimberga più di ogni altro santo patrono delle città tedesche e i pochi testi, tradizioni e leggende, sono il frutto di determinate condizioni politiche e storiche di Norimberga.

Il culto per san Sebaldo è testimoniato sin dal 1072 e verso il 1255 egli divenne insieme a s. Pietro il patrono delle nuova chiesa parrocchiale di Norimbrega, dove si venerò la sua tomba.

La data della sua festa al 19 agosto, comparve per la prima volta in un calendario di Olmütz del 1131-1137 e dal 1339 i bambini della città, vennero battezzati col suo nome, determinando la curiosità di due secoli dopo, quando ogni abitante di Norimberga si chiamava Sebaldo.

Le reliquie del santo eremita deposte in un’urna d’argento, furono nel 1397 trasferite nel nuovo coro della chiesa di S. Sebaldo e ogni anno si svolgeva una processione devozionale.

L’affermazione del suo culto non fu facile, per la resistenza e diffidenza delle classi più elevate e del clero, verso questo oscuro e misterioso santo, che veniva posto in concorrenza nella devozione, con i santi dell’episcopato e della diocesi di Bamberga; nel 1377 il Consiglio fu costretto ad inviare ad ogni convento della città, una copia della leggenda di s. Sebaldo per vincere la diffidenza verso il santo borghese, considerato “rusticitas” (rustico); una copia nel 1385 fu inviata per propaganda anche a Venezia.

Man mano che trascorreva il tempo, il suo culto ebbe maggiore e più qualificata diffusione. I re e gli imperatori di Germania, che si recavano a Norimberga, erano soliti pregare davanti ad un reliquiario che conteneva la sua testa.

Il 26 marzo 1425, su richiesta del Consiglio di Norimberga, papa Martino V canonizzò san Sebaldo e quattro anni dopo fu coniato il fiorino di Norimberga con la sua immagine.

Nel 1519 gli scultori Peter Visher e figli, terminarono la celebre tomba di bronzo nella Chiesa di S. Sebaldo, considerata capolavoro del Rinascimento tedesco e la più bella tomba di un santo di tutta la Germania.

Anche con l’avvento del protestantesimo, la tomba di s. Sebaldo continuò ad avere tutti gli onori e la sua festa fu sempre rispettata.

Il culto è ancora oggi molto diffuso in tutta la Germania, chiese furono erette un po’ dappertutto; a Venezia nella chiesa di S. Bartolomeo sul Rialto, nel 1434 fu consacrato un altare e istituita la festa; nel 1507 nella stessa chiesa, il celebre pittore veneziano Sebastiano del Piombo (1485-1547), lo raffigurò in una delle quattro ante del prezioso organo.

Il santo è di solito raffigurato come pellegrino col bastone ed il berretto e con la barba; man mano che nei secoli aumentava il culto e la devozione, egli veniva rappresentato con il modellino della sua chiesa a due campanili, a volte con gli stemmi delle Case regnanti di Francia e Danimarca, a ricordo della sua origine e del matrimonio.

Fra i tantissimi miracoli e prodigi che gli vengono attribuiti e illustrati nei cicli pittorici, v’è quello di aver dato da morto uno schiaffo ad un burlone che gli aveva tirato la barba.

In Italia S. Sebaldo si commemora sotto il nome di Sinibaldo. Il ‘Martirologio Romano’ lo celebra come eremita il 19 agosto.

Autore: Antonio Borrelli

 

 

20 AGOSTO

San Zaccheo il Pubblicano

 I secolo

San Zaccheo detto il Pubblicano, figura evangelica, per la verità è ricordato più in Oriente che dai Latini, il 20 agosto e in altre date; la Chiesa Copta il 20 aprile; i Bizantini la 32ª domenica dopo Pentecoste; nel Martirologio di Rabban Sliba è ricordato il 27 agosto come vescovo di Cesarea; non è menzionato nel Martirologio Romano.

In Francia una tradizione leggendaria, lo fa giungere dalla Palestina a Roc Amadour come sposo della Veronica e venerato sotto il nome di Amadoro il 20 agosto.

Zaccheo era il ricco capo dei pubblicani, cioè dei gabellieri che avevano l’incarico di esattori delle tasse a Gerico e nonostante fosse ebreo, per questa sua attività al servizio dei Romani, era disprezzato dai connazionali.

 Quando Gesù passò per Gerico, Zaccheo che era basso di statura, per poterlo vedere salì su un albero di sicomoro.

Il Maestro lo vide, lo invitò a scendere e gli chiese di ospitarlo nella sua casa, nonostante il mormorio di disapprovazione dei presenti.

Da quell’incontro nella casa di Zaccheo il Pubblicano, Gesù ottenne da lui la promessa che avrebbe distribuita la metà dei propri beni ai poveri e se avesse frodato qualcuno, avrebbe restituito il quadruplo di quanto estorto.

Al di fuori di questo racconto evangelico, non si sa altro; tutto il resto è leggenda, come la qualifica di vescovo di Cesarea di Palestina, il suo sbarco in Francia, il matrimonio con la Veronica, l’identificazione con l’eremita Amadoro, ecc.

Autore: Antonio Borrelli

 

 

21 AGOSTO

http://www.tuttocollezioni.it/santini/Santi/slides/Xsa-45-72%20S.%20San%20SIDONIO%20APOLLINARE%20VESCOVO%20DI%20CLERMONT%20LIONE%20Santino%20Holy%20card.jpgSan Sidonio Apollinare Vescovo di Clermont

 (ca. 423-480)

Martirologio Romano: A Clermont-Ferrand in Aquitania, in Francia, san Sidonio Apollinare, che, da prefetto della città di Roma ordinato vescovo di Clermont, versato tanto nelle scienze sacre come in quelle profane, da vero padre universale e dottore insigne, forte di cristiano coraggio si oppose alla ferocia dei barbari.

 

Gaio Sollio Apollinare era un gallo-romano nato da una famiglia nobile di Lione verso il 430. II padre e il nonno erano stati entrambi prefetti del pretorio. Sidonio non solo mantenne la carica ma innalzò la sua posizione, nonostante tutti i problemi dell'epoca, a cui egli sopravvisse con successo e onorevolmente. Per questo motivo si hanno molte notizie sulla sua vita, più di molti altri santi di quel periodo.

Sidonio non solo era astuto dal punto di vista politico e sociale, ma anche un ottimo compositore di versi per le ricorrenze. Questo fu probabilmente uno dei fattori maggiori che gli assicurarono la sopravvivenza. Ricevette un'educazione classica a Aries, studiando sotto Claudiano Mamerto di Vienna. Sposò Papianilla, figlia di Avito, erede della tenuta di Avitacum nell'Alvernia. Da lei ebbe un figlio e tre figlie. Avito, scelto dall'aristocrazia della Gallia, divenne imperatore nel luglio 455. Sidonio si recò a Roma con il neo imperatore e il primo gennaio 456 recitò un panegirico in suo onore (alla maniera di Claudiano, che avrebbe mantenuto da quel momento in avanti). Come ricompensa per questo servizio fu eretta una sua statua tra i poeti nel Foro Traiano. Sidonio attirò sempre questo tipo di riconoscimenti, sia durante che dopo la sua vita.

Poco tempo dopo Avito fu deposto, e Sidonio partecipò a una rivolta con centro a Lione a favore del suocero. Fu una pessima scelta: l'insurrezione, infatti, fallì. Di conseguenza ci si sarebbe dovuti aspettare la scomparsa di Sidonio dalla scena politica, invece riuscì a guadagnarsi i favori del nuovo imperatore, Maggiorano, e nel 458 a Lione, recitò un panegirico in suo onore. Questo gli guadagnò un posto come impiegato statale a Roma, a partire dal 459 o 460. Nel 461 Maggiorano fu ucciso da Ricimer il Goto, che nominò imperatore Severo. Sidonio fece ritorno in Francia per alcuni anni. Nel 465 Ricimer avvelenò Severo, e nel 467 fu scelto Antemio al suo posto. Lo stesso anno Sidonio si recò a Roma alla testa di una delegazione gallo-romana e, l'1 gennaio 468, recitò un panegirico in onore del nuovo imperatore. Come riconoscimento venne nominato praefectus urbi, prefetto di Roma. Sidonio, nel 469, ritornò in Gallia e accettò riluttante - dal momento che non aveva alcuna esperienza ecclesiastica - la nomina a vescovo dell'Alvernia, con Clermont-Ferrand come sede. Caratteristica fondamentale per un vescovo era godere di una certa autorità per opporsi agli interessi dei potenti, per questo motivo molti vescovi appartenevano a famiglie senatoriali. Si dice che Sidonio fu un pastore serio ed efficiente, che dedicò ai suoi sacerdoti e alla diocesi le stesse energie che aveva mostrato per il benessere morale dei suoi schiavi. Rinunciò alla poesia, iniziò a digiunare a giorni alterni, donò molti dei suoi beni ai monasteri e ai poveri, contribuendo a sostentare più di quattrocento abitanti della Burgundia colpiti dalla carestia; organizzava processioni in tempo di guerra, difendeva la sua gente con coraggio, specialmente contro i visigoti quando assediarono Clermont. La sua abilità come uomo di stato e il suo patriottismo furono probabilmente elementi decisivi per la scelta di qualcuno che, come lui, avrebbe difeso gli interessi del potere centrale davanti ai nemici. La città tuttavia cadde nel 474. Sidonio fu spaventato dall'eresia ariana e ancora di più quando vide che l'autorità romana cedette formalmente l'Alvernia a Eurico il Goto nel 475 ed egli fu esiliato nella fortezza di Liviana, vicino a Carcassonne. Venne trattato umanamente e fu rilasciato nel 476, con il permesso di ritornare ad adempiere il suo incarico di vescovo fino alla morte, avvenuta probabilmente nel 479-480, se non più tardi, nel 489-490. Dedicò la maggior parte del tempo in quegli ultimi anni alla raccolta e alla pubblicazione delle sue lettere. Diversi scritti di Sidonio sono sopravvissuti: principalmente tre lunghi panegirici e alcuni poemi giovanili dedicati ad amici. Si conoscono anche nove libri delle Epistolae, lettere ad amici e relazioni e sette libri scritti durante gli anni di episcopato. Le lettere sono prodotti letterari sullo stile di Plinio il giovane, e se mai sono state scritte nelle date indicate, devono essere state sicuramente attentamente rimaneggiate. Da queste si ricavano numerosi spaccati della vita cristiana dell'epoca: gli aristocratici locali raccolti intorno alla tomba del console Siagrio il giorno di S. Giusto, all'ombra di un pergolato in un caldo giorno d'autunno; l'interno variopinto della nuova cattedrale di Lione, con uno dei poemi di Sidonio nella decorazione musiva del muro della basilica; Claudiano Mamerto, filosofo, architetto, oratore, esegeta, poeta e musico mentre prova meticolosamente i suoi arrangiamenti musicali dei salmi (instructas docuit sonare classes). Gli scritti di Sidonio lo ritraggono come un patriota gallo-romano fiero e come un aristocratico estremamente consapevole della sua posizione ma anche dei doveri dell'amicizia. Possedeva uno stile molto formale, era pronto a mostrare la conoscenza degli artifici retorici e del discorso ornato con una abbondanza di metafore eccessive per il discorso. Tuttavia pochi sono gli scrittori veramente originali e le sue poesie, come le lettere, sono spesso esecuzioni piacevoli e tentativi letterari ben riusciti. Il contenuto spirituale delle sue opere è minimo, anche se vi sono numerosi ed edificanti riferimenti alla mitologia classica. Nei secoli durante i quali furono pubblicati alcuni compendi di autori latini, sacri e profani, per l'istruzione dei giovani cristiani, un tipico Chorus Poetarum (simile a quello pubblicato da Louis Muget a Lione nel 1615), considerava le opere di Sidonio, insieme a quelle di Claudiano e Ausonio, come "profane", mentre Prudenzio, Venanzio, Lattanzio ed altri erano considerati autori "religiosi". Per un lungo periodo, perciò, Sidonio fu (e in un certo senso rimane) l'ultimo rappresentante della cultura classica alla fine di un'epoca che aveva annoverato Lucrezio, Orazio, Catullo, Properzio e Marziale. S. Gregorio di Tours (17 novembre) fece una collezione (oggi perduta) delle sue Preghiere Eucaristiche, le Contestatiunculae.

Sidonio venne venerato in tutta la Gallia, probabilmente, come è stato detto, perché come altri molti santi fu un vescovo che non lasciò tristi memorie del suo operato.

Autore: Alban Butler

 

Risultati immagini per SANTA CIRIACA DI ROMASanta Ciriaca di Roma

Martirologio Romano: A Roma al Verano, santa Ciriaca, che lasciò il suo nome al cimitero sulla via Tiburtina da lei donato alla Chiesa.

 

E' commemorata il 21 agosto nel Martirologio Romano, inseritavi dal Baronio sull'autorità di una favolosa passio che si conservava nella Biblioteca Vallicelliana. Secondo questo testo, Ciriaca era una nobile romana la quale, rimasta vedova dopo undici anni di matrimonio, mise se stessa e i suoi beni a disposizione dei cristiani che, durante la persecuzione, si riunivano nella sua casa, sita sul Celio, per celebrarvi i divini misteri. Conobbe anche san Lorenzo che la guarì da un mal di capo; dopo la morte del santo, al tempo della persecuzione di Decio, fu arrestata e sottoposta a terribili tormenti durante i quali morì, il 23 agosto. Il suo corpo fu sepolto nell'«agro Verano», non lungi da quello di san Lorenzo, in un suo podere.

Già nella complessa passio Polychronii si accennava ai rapporti tra Ciriaca e Lorenzo, ma senza riferimento al martirio della vedova, mentre gli Itinerari del sec. VII indicano la tomba di Ciriaca accanto a quella del famoso martire, e nella biografia di Adriano I ella è detta «beata». Secondo un'iscrizione conservata in San Martino ai Monti, il papa Sergio II (844-47) aveva trasportato il suo corpo in quella chiesa donde, più tardi, sarebbe stato ancora trasferito in quella di Santa Maria in Campitelli. Col nome di Ciriaca è anche indicato, in antichi documenti topografici, il cimitero della via Tiburtina in cui fu seppellito san Lorenzo, ma quel nome dovette essergli attribuito più tardi, poiché nella Depositio Martyrum esso è riferito semplicemente con la denominazione topografica «in Tiburtina». L'origine dell'attribuzione, con molta probabilità, deve ricercarsi in una notizia del Liber Pontificalis, in cui, alla Vita di Silvestro, si legge che Costantino donò alla chiesa di San Lorenzo al Verano «possessio cuiusdam Cyriacae religiosae foeminae quod fiscus occupaverat tempore persecutionis, Veranum fundum». Il «fondo Verano» fu facilmente identificato con «l'agro Verano» e, per conseguenza, col cimitero omonimo. Così Ciriaca entrò nell'agiografia di Lorenzo essendo, naturalmente, anch'essa elevata alla dignità di martire.

Autore: Agostino Amore        Fonte:Enciclopedia dei Santi      

 

Beata Vittoria Rasoamanarivo Vedova e principessa del Madagascar

 Tananarive (Madagascar), 1848 - † 21 agosto 1894

Vittoria Rasoamanarivo, nacque nel 1848 a Tananarive in Madagascar, in una delle più potenti famiglie dell'isola. Seguì in gioventù la religione idolatrica dei suoi antenati. Ma quando nel Madagascar giunsero alcuni missionari gesuiti francesi, si iscrisse nella scuola della missione e si fece battezzare con il nome di Vittoria, nonostante le resistenze della famiglia. Divenuta principessa, fu data in sposa ad un alto ufficiale dell'esercito, schiavo dell'alcol e delle passioni, ma rifiutò il divorzio, conscia dell'indissolubilità e santità del matrimonio. Quando nel 1883 una persecuzione portò all'espulsione dei missionari e i fedeli cattolici vennero accusati come traditori, Vittoria continuò a professare la sua fede apertamente, si fece protettrice della Chiesa a corte, insistendo che le chiese e le scuole cattoliche rimanessero aperte e incoraggiando le comunità alla perseveranza. Donna di profonda preghiera, trascorreva ore in chiesa e si dedicò ad innumerevoli opere di carità in favore di poveri, prigionieri, abbandonati, lebbrosi. Morì il 21 agosto 1894 a 46 anni. È stata proclamata beata da Giovanni Paolo II il 29 aprile 1989. (Avvenire)

Martirologio Romano: Ad Antananarivo in Madagascar, beata Vittoria Rasoamanarivo, che, rimasta vedova dopo il matrimonio con un uomo violento, quando i missionari furono espulsi dall’isola, aiutò con ogni mezzo i cristiani e difese la Chiesa presso i pubblici magistrati.

 

La beata Vittoria Rasoamanarivo, nacque nel 1848 a Tananarive nella grande Isola del Madagascar, appartenente ad una delle più potenti famiglie degli Hovas; suo nonno materno, fu primo ministro per oltre venti anni della regina Ranavalona (1832-1852) e lei era sorella di Rainilaiarivony, il quale ricoprì la stessa carica per più di 30 anni dal 1864 al 1895.

Secondo le usanze del paese, fu adottata dal fratello maggiore del padre, del quale si sa ben poco, né quando morì; lo zio Rainimaharavo era comandante generale dell’esercito malgascio.

Rasoamanarivo (questo il suo nome originario) crebbe ricevendo, specie dalla madre, una ottima educazione morale e seguì in gioventù la religione idolatrica dei suoi antenati. Ma quando nel Madagascar giunsero alcuni missionari gesuiti francesi, che si stabilirono a Tananarive, seguiti in breve dalle Suore della Congregazione di S. Giuseppe di Cluny, Rasoamanarivo fu tra le prime ragazze ad essere iscritta nella loro scuola, aperta dalla Missione.

 L’esempio di vita santa e piena di sacrifici dei padri e delle suore, la colpì profondamente e dopo aver appreso l’insegnamento della religione cattolica, sebbene tredicenne, chiese di essere ricevuta nella Chiesa; venne battezzata il 1° novembre 1863 con il nome di Vittoria, quasi a presagio delle dure lotte che avrebbe dovuto sostenere.

Il Madagascar a quell’epoca subiva l’influenza coloniale della Francia, questo provocava scontento e tumulti, quando il re Radama II, ritenuto troppo amico della Francia, fu allontanato, si scatenò una persecuzione più o meno aperta contro la Missione cattolica, che a causa della nazionalità francese dei missionari, fu ritenuta affine agli interessi coloniali della Francia.

Vittoria dovette subire le insistenze del suo padre adottivo, che cercava di convincerla a lasciare la fede cattolica e ritornare agli dei pagani, al massimo di abbracciare la fede anglicana, che a quel tempo era ben radicata nel Madagascar, fra l’altro appoggiata dal nuovo governo per motivi politici.

Ma lei non cedette né con le minacce, né con le sofferenze inflittale, finché i familiari desistettero dalle pressioni. I missionari, di fronte a questa situazione, sconsigliarono Vittoria di insistere nel suo desiderio di consacrarsi interamente a Dio, ritenendo più opportuno che continuasse nell’ambito della famiglia e della corte reale, a svolgere il suo apostolato.

Secondo le usanze allora vigenti nel Madagascar, Vittoria fu data in sposa ad un giovane alto ufficiale dell’esercito e figlio del primo ministro, il suo nome era Radriaka, Vittoria volle che le nozze venissero celebrate il 13 maggio 1864, alla presenza di un sacerdote cattolico.

La vita matrimoniale non fu felice, il marito era un uomo dissoluto, schiavo dell’alcool e delle passioni, dava così grande scandalo che i suoi stessi genitori consigliarono a Vittoria di divorziare; ma lei conscia dell’indissolubilità e santità del matrimonio e certa dello scandalo che ne sarebbe derivato nell’opinione pubblica, se una principessa cattolica avesse divorziato, decise di sopportare tutto rimanendogli fedele fino alla morte di lui, avvenuta per i suoi vizi nel 1887.

Nel tempo, acquistò agli occhi della corte e di tutto il popolo, una stima incondizionata, ammirata per la sua vita cristiana esemplare; fu per questa generale autorità morale conquistatosi, che divenne il provvidenziale sostegno della Chiesa Cattolica in Madagascar; quando il 25 maggio 1883 scoppiò una nuova persecuzione, dopo che erano stati espulsi tutti i missionari francesi, e i fedeli cattolici vennero accusati come traditori delle usanze dell’Isola e quindi della loro patria.

Vittoria continuò a professare la sua fede apertamente, si fece protettrice della Chiesa difendendola continuamente presso la regina e il potente Primo Ministro, insistendo che le chiese e le scuole cattoliche, rimanessero aperte, incoraggiava i cattolici con messaggeri o recandosi personalmente nei villaggi vicini.

Divenne secondo l’espressione malgascia: “Padre e Madre” dei fedeli e la colonna della Chiesa, che era privata in quel tempo dei suoi pastori; così quando nel 1886 i missionari poterono ritornare, non trovarono rovine, ma una comunità cattolica fiorente e vigorosa, tutto per suo merito.

Se la sua posizione sociale l’aiutò molto, il segreto della riuscita si trova nella sua santità e nel carisma spirituale che da essa emanava; donna di profonda preghiera, trascorreva in chiesa anche sei o sette ore al giorno, a volte fino a notte inoltrata; si dedicò ad innumerevoli opere di carità in favore di poveri, prigionieri, abbandonati, lebbrosi.

Ebbe a soffrire di varie malattie, sopportate con grande pazienza, morì il 21 agosto 1894 a 46 anni, tra lo sconforto generale del popolo malgascio. Pur non avendolo desiderato, ella fu trionfalmente sepolta nel mausoleo dei suoi antenati a Tananarive.

La causa per la sua beatificazione, fu iniziata solo il 14 gennaio 1932, per circostanze indipendenti dall’intera vicenda. È stata beatificata da papa Giovanni Paolo II il 29 aprile 1989, ad Antananarivo in Madagascar.

Autore: Antonio Borrelli

 

Risultati immagini per SANTI BASSASanti Bassa, Teognio, Agapio e Pisto Martiri

 Martirologio Romano: Commemorazione dei santi martiri Bassa e i suoi tre figli Teognio, Agapio e Pistio: di essi si dice che Bassa abbia subito il martirio nell’isola di Alone, gli altri a Edessa nell’antica Siria.

 

BASSA, TEOGNIO, AGAPIO e PISTO, santi, martiri.

Dalla loro passio leggendaria, di cui si hanno diversi compendi (BHG, I, p. 95, nn. 268-70), sembra potersi dedurre che Bassa, moglie di un sacerdote pagano, fu accusata dal marito di professare la religione cristiana insieme con i loro tre figli. Il martirio di questi ultimi avvenne a Edessa nell'Ellade e non nell'omonima città della Siria, come vuole il Baronio, mentre la madre fu martirizzata nell'isola di Alone, nella Propontide, al tempo dell'imperatore Massimiano.

Ad Alone si celebrò la festa di Bassa fino al 1922, anno in cui i greci furono espulsi dall'isola, dove una fontana porta ancora il nome della santa. A Calcedonia esisteva fin dal sec. V una basilica a lei dedicata. La festa di Bassa e dei suoi tre figli si celebra il 21 agosto.

Autore: Giovanni Battista Proja           Fonte:Enciclopedia dei Santi

 

 

22 AGOSTO

Beato Tommaso Percy Conte di Northumbria, martire

 Northumberland, Regno Unito, 1528 – York, Regno Unito, 22 agosto 1572

Il Martyrologium Romanum ricorda in data odierna il beato martire inglese Thomas Percy, conte di Northumbria, padre di famiglia, che per aver conservato la sua fedeltà alla Chiesa Romana fu decapitato sotto la regina Elisabetta I d’Inghilterra, conseguendo così la palma del martirio. Leone XIII lo beatificò il 13 maggio 1895.

Martirologio Romano: A York in Inghilterra, beato Tommaso Percy, martire, che, conte di Northumbria, per la sua fedeltà alla Chiesa di Roma conseguì con la decapitazione la palma del martirio sotto la regina Elisabetta I.

 

Settimo conte di Northumberland, nato nel 1528, Tommaso Percy era figlio di quel Sir Thomas Percy che, per aver partecipato attivamente al cosiddetto «pellegrinaggio di grazia» del 1536, era stato arrestato e giustiziato, il 2 giugno 1537, al Tyburn di Londra. Educato dapprima, insieme con il fratello minore Enrico, a Preston Tower, dove la madre Eleonora Harbottal erasi ritirata dopo la morte del marito, tanto Tommaso che il fratello vennero ben presto a lei sottratti per essere affidati alle cure di Sir Thomas Tempest, riottenendo entrambi, il 14 marzo 1549, la nobiltà da cui la loro famiglia era stata dichiarata decaduta per gli avvenimenti del 1536.

Quando salì al trono Maria Tudor, il Percy godette il pieno favore della regina, che lo nominò infatti, poco dopo, governatore di Prudhoe Castle, quindi gli restituì, il 1° maggio 1557, il titolo di conte di Northumberland, in riconoscimento del valore da lui dimostrato nella riconquista del castello di Scarborough, concedendogli altresì ulteriori cariche e privilegi. Anche dalla regina Elisa-betta ottenne prima nuovi onori, venendo tra l'altro insignito, il 22 aprile 1563, dell'Ordine della Giarrettiera, ma poi, fatto segno a violente critiche a causa della sua fede cattolica, dovette dimettersi da alcune cariche, essendo stato qualificato dagli agenti del Burghley, sin dal 1565, «dangerously obstinate in religion».

Allorché nel maggio del 1568 la regina Maria Stuart di Scozia andò a rifugiarsi a Carlisle, dopo la sconfitta di Langside, il Percy si recò subito presso di lei sposandone la causa nella speranza che con la sua liberazione si sarebbero potute avere riforme in religione o quanto meno della tolleranza. Sospettato, tuttavia, di favorire la lotta tra la Stuart ed il duca di Norfolk, ricevette ordine di lasciare Carlisle. Indignato di vedere in tal modo limitata la sua libertà, il Percy ascoltò il suggerimento di Thomas Markenfield di unirsi al conte di Westmorland, Charles Neville, e con lui organizzò l'insurrezione del 1569.

Prima di agire scrisse a Pio V per averne il consiglio e le direttive, ma nel frattempo il governo, venuto a conoscenza della ribellione, intimò al conte di Northumberland ed al Neville di comparire davanti alla regina. Gli altri capi del movimento, riunitisi a Brancepeth Castle, decisero, contro il parere del Percy, di ignorare l'intimazione governativa ed il 14 novembre 1569 marciarono con le loro forze su Durham, dove furono ben accolti e poterono restaurare il culto cattolico. Dopo un mese di lotta, nondimeno, gli insorti vennero sconfitti dal conte di Sussex, che trattò con estremo rigore tutti quelli che riuscì a catturare, molti dei quali vennero immediatamente passati per le armi.

Il Percy potè trovare scampo nella fuga, andando in fine a rifugiarsi in Scozia, dove rimase a lungo nascosto nel castello di Lochleven, finché nell'agosto del 1572 venne consegnato dal reggente, il conte di Mar, agli ufficiali della regina Elisabetta per la somma di duemila sterline. Arrestato da William Douglas, fu condotto a York e rinchiuso nel locale castello in attesa di essere giustiziato. Il 22 agosto 1572, giorno della sua esecuzione, prima di porgere il collo al carnefice, rivolto al popolo, il conte di Northumberland dichiarò fieramente di morire da cattolico e di non aver mai riconosciuto la nuova Chiesa d'Inghilterra.

La figlia Mary (1570-1642) fondò nel 1598 l'abbazia benedettina inglese di Bruxelles, di cui divenne anche badessa nel 1616.

Innalzato all'onore degli altari da Leone XIII, il 13 magg. 1895, il beato Percy viene commemorato il 26 ag., specie nelle diocesi di Hexham, Leeds e Middlesborough.

Autore: Niccolò Del Re           Fonte:Enciclopedia dei Santi     

 

 

23 AGOSTO

 

 

24 AGOSTO

 

 

25 AGOSTO

San Ludovico (Luigi IX) Re di Francia

 Poissy, Francia, 25 aprile 1214 - Tunisi, 25 agosto 1270

Luigi IX, sovrano di Francia, nacque il 25 aprile 1214 in Poissy. Incoronato re di Francia, Luigi si assunse il compito, davanti a Dio e agli uomini, di diffondere il Vangelo. Nell'anno 1244 fu sorpreso da una fortissima febbre. Guarito, volle di persona guidare una crociata per la liberazione della Terra Santa. Sbarcato in Egitto, presso la città di Damietta, attaccò con successo i Saraceni. Ma una terribile pestilenza decimò l'esercito crociato, colpendo lo stesso re. Assalito nuovamente dai Turchi, venne sconfitto e fatto prigioniero. Dopo essere stato rilasciato, proseguì come pellegrino per la Terra Santa, dove compì numerose opere di bene. Tornato in Francia, governò con giustizia e cristiana pietà, fondando la Sorbona e preparando una nuova crociata. Ma a Tunisi una nuova epidemia colpì l'esercito. Luigi IX, sentendosi morire, si fece adagiare con le braccia incrociate sopra un letto coperto di cenere e cilicio, dove spirò. Era il 25 agosto del 1270. (Avvenire)

Patronato: Re, Ordine Francescano Secolare

Etimologia: Ludovico = variante di Clodoveo

Emblema: Corona, Globo

Martirologio Romano: San Luigi IX, re di Francia, che la fede attiva sia in tempo di pace sia nel corso delle guerre intraprese per la difesa dei cristiani, la giustizia nel governo, l’amore verso i poveri e la costanza nelle avversità resero celebre. Unitosi in matrimonio, ebbe undici figli che educò ottimamente e nella pietà. Per onorare la croce, la corona di spine e il sepolcro del Signore impegnò mezzi, forze e la vita stessa. Morì presso Tunisi sulla costa dell’Africa settentrionale colpito dalla peste nel suo accampamento.

 

Il re santo

Luigi, secondo figlio conosciuto di Luigi, figlio primogenito ed erede del re di Francia Filippo II Augusto, e della moglie di Luigi, Bianca di Castiglia, nasce molto probabilmente nel 1214 a Poissy il 25 del mese di aprile. Ed ecco che già da questa semplice nota biografica possiamo cogliere un indizio della personalità del futuro santo, egli, infatti, amava farsi chiamare “Luigi di Poissy”, non tanto perché era abitudine dei grandi personaggi dell’epoca aggiungere al proprio nome il luogo di nascita, ma perché, da buon cristiano, riteneva che la sua vera nascita fosse avvenuta il giorno del suo Battesimo a Poissy.

Se l’anno di nascita non fu ritenuto dai biografi contemporanei degno di particolare nota, lo fu, invece, il giorno come attesta il carissimo amico di san Luigi, Joinville, in piena conformità con l’abitudine medievale di ricavare presagi per la vita dalle caratteristiche del giorno della nascita di una persona: “Secondo che gli ho inteso dire, nacque egli il giorno di San Marco Evangelista, dopo la Pasqua. In questo giorno si portano croci in processione in molti luoghi e in Francia sono chiamate croci nere. E ciò fu quasi una profezia della gran copia di persone che morirono in quelle due crociate, cioè in quella d’Egitto e nell’altra in cui egli stesso morì a Cartagine; chè molti grandi lutti vi furono in questo mondo, e molte grandi gioie vi sono ora in paradiso, per coloro che in quei due pellegrinaggi morirono da veri crociati” (Joinville, Histoire de Saint Louis).

Nonostante Luigi, a soli quattro anni, sia divenuto erede al trono subentrando alla morte del fratello maggiore Filippo, non ci sono notizie di lui fino almeno al 1226; certamente è stato educato in modo particolarmente accurato inizialmente da parte della madre e poi, in età militare, dal padre (secondo la massima enunciata da Giovanni di Salisbury nel suo Policraticus: “Rex illitteratus quasi asinus  coronatus” cioè: un re illetterato non è che un asino coronato). È certo anche che di una parte considerevole della sua educazione si sia occupato il nonno Filippo Augusto, il quale, dopo la prestigiosa vittoria di Bouvines, si era ritirato dalla pratica dell’arte della guerra. Luigi può, quindi, fregiarsi anche di un piccolo primato: quello di essere il primo re di Francia ad aver conosciuto il proprio nonno, cosa che avrà un alto valore per il senso dinastico del futuro re. Una particolare attenzione nel panorama educativo del futuro re è stata certamente riservata all’educazione religiosa e morale al fine di esercitare la funzione regia, proteggere la Chiesa e seguirne i consigli. L’ambiente che circondava il giovane Luigi svolge una funzione determinante per la fioritura della sua esemplare vita cristiana, non bisogna, infatti, dimenticare che la madre, Bianca di Castiglia, sarà anch’essa proclamata santa e la sorella, Isabella di Francia, beata.

Alla morte di Filippo Augusto, molti contemporanei tentano di riconoscere nella sua persona un santo grazie ai racconti orali dei prodigi che avevano accompagnato tanto la sua nascita (tra cui la comparsa di una cometa) quanto la sua morte (per lo più guarigioni). Ma nel Duecento avviene, in seno alla Chiesa, un cambiamento radicale nella concezione della santità e il papa Innocenzo III ne prende atto formalmente regolarizzando i processi di canonizzazione, in particolare, stabilendo che i miracoli da considerare in tale processo sono solo quelli avvenuti post mortem e dichiarando la santità della vita quotidiana quale nuovo imprescindibile criterio. Per questo motivo, Luigi riuscirà dove il nonno fallì a causa della sua vita coniugale ritenuta scandalosa da Roma e può essere a buon diritto definito un santo moderno.

 

Il re cristiano

Del mondo di San Luigi, è importante tenerlo presente, fa parte, insieme alla Francia, la “Christianitas”: egli governa da sovrano la prima ed è una delle teste della seconda che ingloba anche il suo regno. La Cristianità si riferisce essenzialmente all’Europa che nel XIII secolo stava vivendo un particolare momento di sviluppo economico: san Luigi sarà anche il primo re di Francia a battere una moneta d’oro, lo Scudo, nel 1226, pratica cessata da Carlo Magno in poi.

All’epoca di san Luigi, la Cristianità è ancora turbata dalle lotte tra papato e impero, ma il vero interesse politico è tutto rivolto all’irresistibile ascesa delle monarchie nazionali. Anche in questo campo san Luigi sarà in grado di far compiere all’amministrazione dello stato alcuni decisivi passi verso il consolidamento della monarchia  francese: essa diventerà uno stato moderno unito attorno alla persona del suo re. L’eredità che il nonno Filippo Augusto lascia al giovane san Luigi è notevole sotto ogni aspetto, vale la pena, però, di approfondire quello dell’eredità morale fondata sullo sviluppo della “religione regia”. Attraverso la consacrazione, il deposito dei regalia nell’abbazia di Saint Denis e i nuovi riti funebri la monarchia e la persona del monarca vanno assumendo un carattere spiccatamente sacro. Lo stesso papa Innocenzo III nel 1202 con la decretale Per venerabilem dichiara che il re di Francia non riconosce alcun superiore nella sfera temporale e con Luigi IX si definisce che il re di Francia deriva il suo potere “solo da Dio e da se stesso”.

 La storia della Cristianità del XIII secolo è caratterizzata dalle numerose eresie pauperiste di cui la più pervasiva è l’eresia catara, nota in Francia con il nome di “eresia degli aubigeois (albigesi)”. Il grande fermento religioso di questo secolo è, però, ben più allargato e comprende almeno altre due manifestazioni importantissime rimaste, tuttavia, nell’ortodossia. La prima è la nascita di nuovi ordini religiosi che rispondono ai nuovi bisogni spirituali dei fedeli e tentano di reagire alla decadenza del monachesimo: sono i nuovi Ordini Mendicanti che intendono portare la pratica della vita cristiana nella vita quotidiana degli uomini delle città e fanno della predicazione la loro arma. Il maggior impulso a questa nascita avviene per opera dei due santi Domenico di Calaruega, fondatore dei frati Predicatori, e Francesco d’Assisi, fondatore dei frati Minori. Determinante nella vita di san Luigi sarà la presenza degli Ordini Mendicanti, tanto che sarà non senza malizia definito “il re degli Ordini Mendicanti” e in qualcuno nascerà il sincero sospetto che voglia egli stesso farsi frate mendicante. L’altra manifestazione del grande movimento religioso del XIII secolo è l’ascesa dei laici all’interno della Chiesa, soprattutto attraverso la fondazione dei cosiddetti “Terz’ordini laicali” degli Ordini Mendicanti. Di  conseguenza, anche la santità, che precedentemente pareva essere monopolio di chierici e monaci, si estende anche ai laici, uomini e donne. Se sant’Omobono, un mercante di Cremona, è il primo laico canonizzato nel 1199 da Innocenzo III solo due anni dopo la morte, san Luigi è sicuramente il più famoso.

 

Il re fanciullo

Il 3 novembre 1226, durante la crociata contro il conte di Tolosa, protettore degli eretici, Luigi VIII muore a Montpensier lasciando un primogenito la cui tenera età pone immediatamente dei seri problemi dinastici, soprattutto considerando che Luigi VIII ha un fratellastro venticinquenne alleato con gli immancabili baroni poco sottomessi all’autorità regia. Ma Bianca di Castiglia, la cui reggenza è confermata da un documento firmato dai vescovi più importanti del regno e depositato nel “Tresor des charter” (l’archivio regio), una volta sepolto Luigi VIII si dedica interamente alla difesa e all’affermazione di suo figlio, il re fanciullo, al mantenimento e al rafforzamento della potenza della monarchia francese.

Alla guida della Francia c’è, come non accadeva da un secolo e mezzo, un dodicenne e un sentimento d’angoscia si diffonde in tutto il regno. Bisogna, infatti, considerare che la funzione principale di un re medievale è quella di mettere in rapporto con la divinità la società di cui è capo. Ora, un fanciullo, per quanto re legittimo e unto, è un fragile intermediario, tanto più che l’infanzia nel Medioevo è concepita soltanto come un non-valore; l’infanzia dell’uomo modello del Medioevo, il santo, viene negata: un futuro santo manifesta la sua santità mostrandosi precocemente adulto. Né la legge dello stato né il diritto canonico stabilivano leggi riguardo alla maggiore età e la consuetudine la fissava a ventuno anni, eccezion fatta proprio per i sovrani che la raggiungevano a quattordici. Nel caso di san Luigi, la forza e il desiderio di governare di Bianca di Castiglia è molto probabile che lo abbiano fatto attendere, inoltre c’è un periodo di passaggio in cui è chiaro dagli atti che entrambi siano sullo stesso piano. Ma alla fine del 1226, Luigi è, per quanto precipitosamente, consacrato re.

L’attività di governo per Luigi inizia subito con alcune questioni della massima urgenza ma ben presto tutto barcolla: il sovrano è un fanciullo e sua madre una donna straniera, così un numero importante di baroni si riunisce a Corbeil e decide di impadronirsi del giovane re, non per detronizzarlo ma per governare in suo nome al posto di sua madre e dei suoi consiglieri aggiudicandosi, inoltre, terre e ricchezze. Ma ecco che per la prima volta il popolo di Parigi si stringe attorno al suo re scortandolo e proteggendolo dai suoi attentatori. Un secondo tentativo di impadronirsi della mente del re avviene in modo più sottile allorché gli stessi baroni iniziano a diffondere false dicerie sui presunti cattivi costumi morali di Bianca di Castiglia. I primi anni di regno di Luigi, che gli storici si limitano a presentare come anni di rischi e difficoltà, sono anche per il giovane re anni di progressi decisivi del potere regio e del suo prestigio personale grazie, soprattutto, alla sapiente presenza del re in molte operazioni militari vincenti.

Nel 1234, ottavo anno di regno, Luigi sposa, in seguito ad un accordo tra i genitori, Margherita, figlia primogenita di Raimondo Breringhieri V conte di Provenza. Luigi e Margherita sono parenti di quarto grado, ma il papa Gregorio IX concede loro la dispensa a causa della “urgente ed evidente utilità” di un unione che contribuirà a riportare la pace in una terra sconvolta dalle eresie e dalla guerra contro gli eretici. Il matrimonio viene celebrato dal vescovo di Valence e zio di Margherita Guglielmo di Savoia a  Sens, facilmente raggiungibile da Parigi e dalla Provenza, il 27 maggio, vigilia della domenica che precede l’Ascensione.

Sappiamo, da una confidenza fatta molto tempo dopo dalla regina Margherita, che il giovane sposo regale non toccò sua moglie nella prima notte di nozze, rispettando, come gli sposi cristiani molto pii, le “tre notti di Tobia” raccomandate dalla Chiesa sulla scorta dell’esempio di Tobia nell’Antico Testamento. I figli iniziano a coronare il matrimonio solo sei anni dopo, saranno undici di cui, però, solo sette sopravvivranno al padre.

 

Il re devoto

Molti sono gli aspetti per cui san Luigi si è facilmente prestato ad essere definito “il re devoto”, di seguito ne analizzerò solo alcuni tra i più significativi.

Già Filippo Augusto e ancor più san Luigi intuiscono l’importanza per la monarchia francese di avere a Parigi, nonostante non sia ancora una vera capitale, un focolaio di studi superiori che sia in grado di apportare gloria, sapere e alti funzionari chierici e laici alla regalità. I re di Francia non hanno ancora in quell’epoca una vera e propria politica universitaria, tuttavia, capiscono che, come Roma era la capitale politica della Cristianità, così Parigi poteva esserne la capitale intellettuale in quanto sede della facoltà di teologia.

Moderno e tradizionale allo stesso tempo si presenta l’atteggiamento di san Luigi nei confronti dell’Impero: pur nel solco della tradizione capetingia, ormai affrancata dalla giurisdizione imperiale, san Luigi manterrà sempre un devoto rispetto per la figura dell’Imperatore, all’epoca Federico II, perché da buon medievale si sente membro di un corpo, la Cristianità, che ha due teste: il Papa e l’Imperatore. La possibilità di mantenere questo equilibrio reverenziale nei confronti dell’assodata bicefalia della Cristianità è permessa anche dal fatto che da tempo, ormai, tanto l’Impero quanto la Chiesa non possono più vantare diritti o poteri giuridici nel regno di Francia, come già descritto. Inoltre, Luigi IX mette in atto per molto tempo e in molti modi diversi una grande opera di pacificazione nei confronti delle due massime autorità della Cristianità.

I dissidi che san Luigi si trova ad affrontare con i vescovi di Reims e, soprattutto, di Beauvais, ci mostrano un re che, pur nella sua personale religiosità e sottomissione alla Chiesa, tanto da essere chiamato dai contemporanei “il re devoto”, nelle questioni temporali che riguardano lo Stato è inflessibile sostenitore dei diritti e doveri di quest’ultimo, fulgido esempio sempre attuale di quanto sia possibile mantenere il giusto equilibrio tra la religione e la politica.

E proprio l’aspetto della devozione che preannuncia il futuro san Luigi si rivela non solo nel suo personale interessamento, riferito esplicitamente dall’amico Joinville, nella costruzione dell’abbazia di Royaumont, dando compimento ad una delle ultime volontà del defunto Luigi VIII che aveva lasciato un’ingente somma a tal fine, ma anche nel lavoro manuale che, come alcune biografie riferiscono, il re prodigò in tale iniziativa coinvolgendo anche i fratelli e alcuni cavalieri del suo seguito. In realtà, il padre aveva indicato anche quale avrebbe dovuto essere l’Ordine religioso affidatario della struttura, ma l’attrazione che il monachesimo riformato cistercense esercita su Luigi e che tornerà altre volte nella sua vita sarà più forte.

È innegabile che nella Cristianità del XIII secolo una grande manifestazione di devozione e, pari tempo, fonte di grande prestigio è il possesso di insigni reliquie e anche per san Luigi si presenta ben presto la possibilità di ottenerne alcune davvero molto preziose allorché, nel 1237, Baldovino, il giovane imperatore dell’Impero Latino di Costantinopoli viene in Francia per cercare aiuto contro i greci che volevano riprendersi la loro capitale. Egli, proprio mentre si trova presso la corte francese, viene raggiunto dalla notizia che i baroni dell’Impero Latino, in preda alla necessità di denaro, hanno deciso di vendere la più preziosa reliquia conservata a Costantinopoli: la Corona di spine di Gesù. Il re di Francia e sua madre si infiammano subito si santo zelo per ottenerla: emblema di umiltà, la Corona di spine è, nonostante tutto, una corona, cioè una reliquia con una forte caratterizzazione regale. Essa incarna quella regalità sofferente e umile che è diventata l’immagine di Cristo nella devozione del XIII secolo e che l’immaginario collettivo trasferisce sul capo del re, immagine di Gesù sulla terra. Tra molti perigli e trattative la sacra Reliquia giunge nei pressi della Francia e, come cinque anni prima era corso incontro alla fidanzata, Luigi ora corre a ricevere il sacro acquisto; egli porta con sé la madre, i fratelli, molti vescovi e cavalieri; l’incontro avviene a Villeneuve-l’Archeveque: i testimoni oculari spenderanno in seguito pagine e pagine per descrivere l’intensa emozione dimostrata dai reali. Segue poi la processione penitenziale che accompagna la Reliquia nella cattedrale di Sens: sono il re e suo fratello Roberto, a piedi nudi e con una sola tunica, a trasportare la cassa. Di là, dopo la rituale esposizione, riprende il viaggio verso Parigi dove viene esposta nella cattedrale di Notre Dame e poi definitivamente deposta nella cappella palatina di Saint Nicolas. Poiché il bisogno di denaro da parte dell’imperatore di Costantinopoli continua, Luigi ben presto completa, non senza grandi spese, la sua collezione di reliquie della Beata Passione (parti della Croce, la sacra Spugna, il ferro della Lancia di Longino). La cappella del palazzo reale si dimostra ben presto indegna di accogliere e custodire simili tesori, Luigi si rende conto che occorre una chiesa che possa essere essa stessa un reliquario glorioso e, a questo scopo, inizia la costruzione della Sainte Chapelle. Già nel 1243 papa Innocenzo IV concede alcuni privilegi alla futura cappella, nel 1246 Luigi fonda un collegio di canonici che ne assicurino l’officiatura e nel 1248 alcune risorse dello Stato vengono destinate alla sua manutenzione. La consacrazione solenne, alla presenza del re, avviene il 26 aprile 1248, due mesi prima che Luigi parta per la crociata. Fin dall’epoca di Luigi IX la cappella era considerata un capolavoro dell’arte gotica.

Un altro evento devozionale del regno di san Luigi degno di una speciale nota è il famoso smarrimento e ritrovamento dell’insigne reliquia del Santo Chiodo presso Saint Denis: durante una solenne ostensione, tale reliquia va misteriosamente perduta e le cronache si prodigano a descrivere tanto la disperazione di san Luigi, manifestata anche dalla sua personale ricerca, quanto la sua somma gioia dopo il casuale rinvenimento. Va, anzitutto, ricordato che nel Medioevo nell’animo dei più semplici come in quello dei più saggi e potenti esiste, incrollabile, la credenza nella virtù sacra di taluni oggetti che garantiscono la prosperità di un regno e la cui perdita occasionale può presagirne inequivocabilmente la rovina: il giovane Luigi condivide e stimola la religiosità più profonda del suo popolo e comincia a costruire la sua immagine e la sua politica sull’espressione pubblica e intensa di questi sentimenti. Nel suo entourage, tuttavia, quelle manifestazioni di devozione sono ritenute eccessive e indegne di un re che deve sempre dimostrare un grande senso della misura e dare esempio di ragionevolezza. Ma per Luigi non c’è alcun problema intimo: egli vuol essere, al tempo stesso e senza contraddizione, re di Francia cosciente dei suoi doveri, compresi quelli che concernono apparenza e simbologia, e buon cristiano, il quale, per essere di buon esempio e assicurare la salvezza sua e del suo popolo, deve manifestare la sua fede secondo le antiche e nuove pratiche con un comportamento sensibile.

Un episodio apparentemente irrilevante della vita di san Luigi ma che risulta importante per capire la sua spiritualità di re santo si verifica nel momento in cui i mongoli sembrano invadere l’Europa da est. Dalle lettere che invia alla madre, emerge un santo escatologico che vede in essi l’invasione dei popoli di Gog e Magog annunciati dall’Apocalisse come preludio alla fine del mondo. San Luigi aspira a due possibili destini: il martirio o la fine del mondo, egli si affida confidente a Dio ed è pronto ad abbracciare entrambi.

Tutto il regno di san Luigi sarà segnato da una forte discordanza tra la sua personale pietà e l’opinione pubblica; forse anche il re stesso avrà qualche periodo di dubbio, in particolare dopo il fallimento della crociata, ma ne uscirà sempre più convinto di trovarsi sulla retta via nella necessaria fusione delle sue due principali occupazioni: il bene del regno e del popolo e la sua salvezza personale, che in quanto re, coinvolge inevitabilmente quella di tutto il popolo. In un’epoca in cui non occupare il proprio posto secondo lo status dato da Dio a ciascuno è cosa assolutamente scandalosa, è percepito come problematico un re a più riprese definito re-monaco o re-frate, ma, alla fine, la soluzione giusta sarà trovata dalla maggioranza dell’opinione pubblica e sancita dalla Chiesa: egli sarà un re-santo, un re laico e santo.

 

Il re crociato

 Nel 1244, san Luigi cade in un forte attacco di una malattia che già lo perseguitava da tempo ed arriva a perdere conoscenza tanto che molti lo credono morto e la regina madre invia a Pontoise, dove egli si trova, le Reliquie reali affinché il re le possa toccare. Appena ripreso da quello stato e appena è in grado di parlare, racconta sempre l’amico Joinville, chiede soltanto di diventare crociato. Le reazioni all’annuncio di questo voto sono di diversa natura, come, del resto, in quel secolo era in fase di mutamento lo spirito stesso con cui si affrontava l’argomento delle crociate dopo che i numerosi fallimenti avevano portato ad un forte scoraggiamento nella classe politica. Un trovatore, invece, interpreta l’entusiasmo popolare per un san Luigi crociato e, nei testi della sua propaganda si meraviglia che un uomo “leale e integro, esempio di saggezza e di rettitudine” che conduce “una vita santa, linda, pura, senza peccato e senza macchia” si sia fatto crociato quando i più intraprendevano le crociate per fare penitenza. Ma per Luigi, che spinge all’estremo la fede che gli è stata inculcata, la crociata non è che il coronamento della retta condotta di un principe cristiano. Così, il 12 giugno 1248, Luigi va a Saint Denis a prendere l’orifiamma, la tracolla e il bordone dalle mani del cardinale legato, segni della sua intima convinzione dell’identità tra crociata e pellegrinaggio. Poi si reca a piedi nudi e seguito da una grande processione di popolo all’abbazia reale di Saint Antoin de Champs e, prima di partire, nomina sua madre reggente del regno. Da notare il lavoro silenzioso e paziente di questa santa regina che per tutta la vita ha degnamente preparato e sostituito nelle necessità il figlio al timone del regno di Francia. La partenza da Parigi segna anche, nella vita di san Luigi, una svolta che colpisce molto gli appartenenti al suo entourage. Le norme regolatrici della crociata ingiungono ai crociati la modestia nel vestire; si può facilmente immaginare che il rigoroso Luigi rispettò e fece rispettare quelle prescrizioni, ma Luigi, per quanto riguarda la sua persona, non si accontenta di applicare rigorosamente le prescrizioni della Chiesa e, secondo la sua abitudine, va molto oltre conservando tale austerità anche al ritorno dalla crociata fino alla morte. Questa rinuncia è il segno di una svolta nella vita di san Luigi, il passaggio da un genere di vita e di governo semplicemente conformi alle raccomandazioni della Chiesa a una condotta personale e politica autenticamente religiosa, da un semplice conformismo ad un vero ordine morale.

 La crociata si apre in Egitto con alcune piccole vittorie ma ben presto sopraggiungono le sconfitte e Luigi stesso viene fatto prigioniero dai musulmani e questa è la disgrazia peggiore per un re, ancor più lo è per un re cristiano essere fatto prigioniero dagli infedeli. Alla liberazione, avvenuta un mese dopo la cattura, il cappellano reale racconta la dignità e il coraggio dimostrati dal re durante la prigionia: Luigi pensa anzitutto agli altri crociati prigionieri, rifiuta qualsiasi dichiarazione contraria alla propria fede cristiana e sfida perciò la tortura e la morte. Anche quando viene a sapere che i suoi sono riusciti a frodare i musulmani versando un cifra inferiore rispetto a quella pattuita per il suo riscatto, si infuria, convinto che la sua parola debba essere sempre mantenuta e onorata anche se prestata a dei miscredenti. La crociata termina con un nulla di fatto e, mentre si trova in Terra Santa, Luigi vede svanire anche un altro dei suoi più grandi sogni: la conversione dei mongoli. Infatti, i missionari da lui inviati al gran Khan ritornano sconfitti. Infine, è un terribile evento a mettere fine alla sua permanenza in Terrasanta: nella primavera del 1253, Luigi riceve la notizia della morte dell’amata madre che era deceduta il 27 novembre del 1252. L’amico Joinville racconta le scomposte manifestazioni di dolore che accompagnano l’apprensione della notizia da parte di san Luigi e i rimproveri da parte dei contemporanei per l’esagerata reazione.

Ma qualche cosa, sebbene a livello spirituale, san Luigi la sa guadagnare da queste dolorose sconfitte. Infatti, discutendo con i suoi interlocutori musulmani, pur continuando a detestare la loro falsa religione, si rende conto che il dialogo con questi ultimi è possibile; inoltre, è in grado di imparare qualcosa di utile dai musulmani, infatti, tornato in patria, è il primo re che costruisce una biblioteca di manoscritti di opere religiose sul modello di quella del sultano.

 

Il re escatologico

Premeditato o improvvisato, l’incontro tra Ugo di Digne, appartenente alla corrente rigorista degli Spirituali francescani, e il re santo avrà grande importanza nella vita di quest’ultimo. In preda allo sconforto per gli eventi appena elencati, san Luigi ne ricerca le cause e si domanda cosa debba fare per piacere a Dio, assicurare la propria salvezza e quella del suo popolo e servire la Chiesa, Ugo gli mostrerà la via: far regnare sulla terra la giustizia nella prospettiva del momento in cui “i tempi saranno compiuti”, promuovere una città terrestre evangelica, in breve, diventare un re escatologico. Questa proposta, che probabilmente interpretava i desideri profondi di Luigi, diventerà il programma dell’ultimo periodo del suo regno.

Joinville testimonia il passaggio dalla semplicità all’austerità che contrassegna la vita di san Luigi dopo il ritorno dalla Terrasanta e il suo confessore, consigliere e primo biografo, Goffredo di Beaulieu, ne racconta i sentimenti in modo mirabile: “Dopo il suo felice ritorno in Francia, i testimoni della sua vita e  i confidenti della sua coscienza videro fino a qual punto egli cercò di essere devoto verso Dio, giusto verso i suoi sudditi, misericordioso verso gli infelici, umile verso se stesso e come fece ogni sforzo per progredire in tutte le virtù. Come l’oro è superiore in valore all’argento, così il suo nuovo modo di vivere, portato con sé dalla Terrasanta, superava in santità la sua vita precedente; eppure in gioventù, egli era sempre stato buono, innocente ed esemplare”.

Tutto questo fervore si riflette nelle sue decisioni politiche e in ogni ordinanza regia non trascura di aggiungere provvedimenti riguardanti la moralità, tra cui misure repressive della bestemmia, del gioco, della prostituzione, della frequentazione delle taverne, prescrizioni contro gli ebrei e la propagazione del principio della presunzione d’innocenza per gli imputati richiamando i giudici all’esempio del Giudice supremo, Dio di giustizia e di misericordia. Oltre alla giustizia, l’altro dovere che si impone ad un re cristiano è la pace e Luigi saprà essere arbitro oltre i confini del suo regno dando l’esempio a molti, tanto da arrivare ad essere definito “arbitro e pacificatore della Cristianità”.

Nel 1267, Luigi decide di intraprendere una nuova crociata e da inizio ad un nuovo periodo di preparazione e purificazione emanando nuove leggi contro la bestemmie, reato equiparato alla lesa maestà, e gli ebrei e facendo intensificare la predicazione. Partito come nel 1248, il 14 marzo 1270, l’esercito sbarca a Tunisi per raggiungere l’Egitto, ma la via di Tunisi si rivela ben presto una vera e propria Via Crucis. Sfumata la possibilità di convertire l’Emiro musulmano che si rivela immediatamente illusoria ancorché san Luigi non vi voglia rinunciare e, di nuovo, il flagello del Mediterraneo, l’epidemia di tifo, si abbatte sull’esercito regio. Dopo suo figlio Giovanni Tristano, anche san Luigi muore il 25 agosto assistito dal suo inseparabile confessore. È lui che racconta che sul letto di morte, pur sentendo la fine avvicinarsi, san Luigi non ha altra preoccupazione che le cose di Dio e l’esaltazione della fede cristiana. Così, a fatica e a bassa voce, proferisce le sue ultime parole: “Cerchiamo, per l’amor di Dio, di far predicare e di introdurre la fede cattolica a Tunisi”. Benché la forza del suo corpo e della sua voce si affievoliscano a poco a poco, egli non cessa di chiedere i suffragi dei Santi a cui era più devoto, in particolare san Dionigi patrono del suo regno. Più volte mormora le ultime parole della preghiera a san Dionigi: “Noi ti preghiamo, Signore, per l’amore che abbiamo per te, di darci la grazia di disprezzare i beni terreni e di non temere le avversità”. Poi ripete l’inizio della preghiera a san Giacomo: “Sii, o Signore, il santificatore e il custode del tuo popolo”. Ancora il Beaulieu riferisce che Luigi muore all’ora stessa della morte del Signore su un letto “di ceneri sparse in forma di croce”. Così il re-Cristo muore nell’eterno presente della morte salvatrice di Gesù. Secondo una certa tradizione, egli avrebbe mormorato nella notte precedente alla sua morte: “Andremo a Gerusalemme”.

La bara con le ossa di Luigi IX, debitamente trattate, viene portata ed esposta a Parigi nella chiesa di Notre Dame e i funerali hanno luogo a Saint Denis il 22 maggio, quasi nove mesi dopo la morte del re. Attorno ai sacri resti, i visceri in Sicilia e lo scheletro a Saint Denis, si verificano numerosi miracoli sin da subito, ma ormai la fama non è più sufficiente per creare dei santi, la curia romana si è riservata tale diritto ed inizia il processo di canonizzazione la cui prima iniziativa risale a papa Gregorio X. Sarà però papa Bonifacio VIII con la bolla Gloria, laus a pronunciare la canonizzazione solenne di Luigi IX e a fissarne la festa nel giorno della sua morte, il 25 agosto.

Ed è così che il re, nato sotto il sego del lutto e morto in terra straniera e infedele, fa il suo ingresso nella gloria eterna.

Autore: Emanuele Borserini

 

 

26 AGOSTO

Ed ecco finalmente una coppia di sposi beati non “malgrado” il matrimonio, ma proprio in virtù di esso. Li abbiamo già ricordati la data in cui è partita questa rassegna di santi sposati, il 25 novembre, data del loro matrimonio (e in quella data mi piace ricordarli proprio perché santi insieme e in quanto sposi), ma per completezza del lavoro che sto svolgendo li segnalo anche qui, il 26 agosto, la data in cui è registrata lei nel martirologio romano.

 

Beati Luigi Beltrame Quattrocchi e Maria Corsini Sposi

 26 agosto e 9 novembre

Catania, 12 gennaio 1880 - Roma, 9 novembre 1951

Firenze, 24 giugno 1884 - Serravalle (AR), 26 agosto 1965

Luigi Beltrame nacque a Catania il 12 gennaio 1880; adottato da uno zio senza figli, che gli dà il suo cognome, Quattrocchi, si trasferisce con lui a Roma dove studia Giurisprudenza. Qui conosce Maria Luisa Corsini, figlia unica di genitori fiorentini, di quattro anni più giovane. Le nozze vengono celebrate nella Basilica di S. Maria Maggiore il 25 novembre 1905. L’anno seguente nasce il primo figlio, Filippo, seguito da Stefania (nel 1908), Cesare (1909) ed Enrichetta (1914); crescendo abbracceranno tutti la vita religiosa. Luigi fu avvocato generale dello Stato; Maria, una scrittrice assai feconda di libri di carattere educativo. Il Papa li ha beatificati il 21 ottobre 2001, nel ventesimo anniversario della Familiaris Consortio. In quell’occasione, per la prima volta nella storia della Chiesa abbiamo visto elevata alla gloria degli altari una coppia di sposi, beati non “malgrado” il matrimonio, ma proprio in virtù di esso.

Martirologio Romano: 26 agosto: A Roma, beata Maria Beltrame Quattrocchi, che, madre di famiglia, visse con suo marito una vita di profonda e lieta comunione di fede e di carità verso il prossimo, illuminando con la luce di Cristo la famiglia e la società.

9 novembre: A Roma, beato Luigi Beltrame Quattrocchi, che, padre di famiglia, nelle faccende pubbliche come in quelle private osservò i comandamenti di Cristo e li proclamò con diligenza e probità di vita.

 

 Il 12 febbraio 1994, nel dare inizio presso il Tribunale per le Cause dei Santi del Vicariato di Roma alla loro causa di canonizzazione, il Cardinale Vicario Camillo Ruini così li presentava: "I due avevano cristianamente consacrato il loro amore coniugale e la grazia del sacramento nuziale li ha sempre sostenuti mirabilmente nel formare e crescere la loro famiglia…”. Ed il S. Padre si è mostrato particolarmente lieto di questa circostanza perché da tanto tempo desiderava un cammino di santità, da additare al popolo dei fedeli, realizzato da una coppia di sposi.

Risultati immagini per LUIGI BELTRAME QUATTROCCHINon hanno fondato congregazioni. Non sono partiti missionari per terre lontane. Semplicemente hanno vissuto il loro matrimonio come un cammino verso Dio facendosi santi. Il Papa li ha beatificati il 21 ottobre scorso, nel ventesimo anniversario della Familiaris Consortio. In quell’occasione, per la prima volta nella storia della Chiesa abbiamo visto elevata alla gloria degli altari una coppia di sposi, Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, beati non “malgrado” il matrimonio, ma proprio in virtù di esso.

La beatificazione dei coniugi Quattrocchi è avvenuta, non a caso, in occasione della giornata della famiglia, segnando una svolta, per così dire “storica”, sul modo comune di concepire la santità: non più soltanto appannaggio di suore, sacerdoti e singoli fedeli, ma un cammino aperto e praticabile da tutti gli sposi cristiani, sulla scia dei neo-beati, una coppia borghese che visse a Roma nella prima metà del Novecento.

Luigi Beltrame era nato a Catania il 12 gennaio 1880; adottato da uno zio senza figli, che gli dà il suo cognome, Quattrocchi, si trasferisce con lui a Roma dove studia Giurisprudenza. Qui conosce Maria Luisa Corsini, figlia unica di genitori fiorentini, di quattro anni più giovane. Una ragazza piena di doti: colta, Risultati immagini per LUIGI BELTRAME QUATTROCCHI sensibile e raffinata, amante della letteratura e della musica, a vent’anni aveva già pubblicato un saggio su Dante Gabriele Rossetti e i preraffaelliti.

Le nozze vengono celebrate nella Basilica di S. Maria Maggiore il 25 novembre 1905. L’anno seguente nasce il primo figlio, Filippo, seguito da Stefania (nel 1908), Cesare (1909) ed Enrichetta (1914). Crescendo abbracceranno tutti la vita religiosa: Filippo (don Tarcisio), sarà sacerdote diocesano, Stefania (suor Maria Cecilia), monaca benedettina, Cesare (padre Paolino), monaco trappista, ed Enrichetta, l’ultima nata, consacrata secolare. Ad eccezione di Stefania, scomparsa nel 1993, i fratelli sono ancora viventi e di veneranda età, attivi e lucidissimi nel far memoria della santità dei loro genitori, che furono sposi ed educatori davvero esemplari.

Lui, Luigi, avvocato generale dello Stato, fu professionista stimato e integerrimo; lei, Maria, una scrittrice assai feconda di libri di carattere educativo. Entrambi avevano a cuore i problemi della società e della nazione: animatori dei gruppi del Movimento di Rinascita Cristiana, avevano aderito anche al Movimento “Per un mondo migliore” di P. Lombardi. Luigi fu amico di Don Sturzo e di Alcide De Gasperi; senza mai prendere una tessera di partito, esercitò l’apostolato nella testimonianza cristiana offerta nel proprio ambiente di lavoro, laicista e refrattario alla fede, nella profonda bontà che ebbe nel trattare con tutti, soprattutto i “lontani”, nella sollecitudine costante verso i bisognosi che bussavano quotidianamente alla loro porta di casa, in Via Depretis, sul colle Viminale.

Lei, infermiera volontaria della Croce Rossa, durante le due guerre si prodigò instancabilmente per i soldati feriti; catechista attivissima per le donne del popolo nella parrocchia di S. Vitale, organizzò i corsi per fidanzati, autentica novità pastorale per quei tempi, quando il matrimonio veniva considerato come qualcosa di scontato, che non esigeva approfondimento nè preparazione. Maria svolse anche un’intensa opera di apostolato con la penna, fece parte dell’Azione Cattolica Risultati immagini per LUIGI BELTRAME QUATTROCCHIe di altre associazioni, appoggiò inoltre la nascita dell’Università Cattolica del S. Cuore, accanto a P. Agostino Gemelli e Armida Barelli, chiamata a far parte del Consiglio Centrale dell’Unione Femminile Cattolica Italiana come incaricata nazionale per la religione.

Non è certo possibile riassumere in poche righe la straordinaria vicenda umana e spirituale dei coniugi Beltrame Quattrocchi. La loro esistenza di sposi fu un cammino di santità, un andare verso Dio attraverso l’amore del coniuge. Mezzo secolo di vita insieme, senza mai un attimo di noia, di stanchezza, ma conservando sempre il sapore continuo della novità. Il loro segreto? La preghiera.

Ogni mattina a Messa insieme alla Basilica di S. Maria Maggiore, “usciti di chiesa mi dava il “buon-giorno”, come se la giornata soltanto allora avesse il ragionevole inizio. Ed era vero…”, ricorda lei in Radiografia di un matrimonio, il suo libro-capolavoro. La recita serale del S. Rosario, l’adorazione  notturna, la consacrazione al Sacro Cuore di Gesù solennemente intronizzato al posto d’onore nella sala da pranzo, e altre pie pratiche. Nel 1917 divennero terziari francescani e nel corso della loro vita non mancarono mai di accompagnare gli ammalati, secondo le loro possibilità, a Loreto e a Lourdes col treno dell’UNITALSI, lui come barelliere, lei come infermiera e dama di compagnia.

Il loro esempio, la loro profonda vita di fede, la pratica quotidiana del pregare in famiglia ebbero di certo i propri effetti sui figli, che si sentirono tutti e quattro chiamati dal Signore alla vita consacrata. Non senza ragione, perché “la famiglia che è aperta ai valori trascendenti, che serve i fratelli nella gioia, che adempie con generosa fedeltà i suoi compiti ed è consapevole della sua quotidiana partecipazione al mistero della Croce gloriosa di Cristo, diventa il primo e il miglior seminario della vocazione alla vita di consacrazione al Regno di Dio”, come giustamente ha sostenuto il S. Padre nell’Esortazione apostolica Familiaris Consortio (n. 53), che consigliamo ai nostri lettori di leggere, specie i padri e madri di famiglia, giacché il testo costituisce un po’ la magna charta della pastorale familiare della Chiesa del terzo millennio.

Nel progetto di Dio il matrimonio è vocazione alla santità e offre tutti i mezzi per raggiungerla. La santità del terzo millennio che la Chiesa ci addita parla proprio il linguaggio della famiglia. “Si è santi – ha detto infatti P. Giordano Muraro - non perché si vive in chiostri odorosi di incenso, salmodiando o curando infermi: ma perché si ama. E l’amore è possibile a tutti. Anzi: il matrimonio e la famiglia sono naturalmente luoghi di amore…Non si ama un generico “prossimo” ma questa persona che è mio marito, mia moglie, mio figlio, il mio genitore, mio fratello. Non sono io che scelgo il momento e il modo, ma è l’altro che si presenta qui, ora, ogni giorno. Lo sposato può dire a se stesso: Dio mi ha mandato nella vita della persona di cui mi sono innamorato, e chiede di servirsi del mio cuore, del mio affetto, della mia tenerezza, della mia dedizione, del mio amore, per portare in lei, in lui, la Sua vita e la Sua salvezza.

Le loro date di culto per la Chiesa Universale sono separate e cadono nei giorni 26 agosto e 9 novembre, mentre la Diocesi di Roma li commemora il 25 novembre, anniversario del loro matrimonio.

Autore: Maria Di Lorenzo

 

 

27 AGOSTO

Conosciamo oggi Santa Monica, una santa madre tanto importante da aver meritato di essere la patrona delle madri e delle spose cristiane!

Santa Monica Madre di S. Agostino

 Tagaste, attuale Song-Ahras, Algeria, c. 331 - Ostia, Roma, 27 agosto 387

Nacque a Tagaste, antica città della Numidia, nel 332. Da giovane studiò e meditò la Sacra Scrittura. Madre di Agostino d'Ippona, fu determinante nei confronti del figlio per la sua conversione al cristianesimo. A 39 anni rimase vedova e si dovette occupare di tutta la famiglia. Nella notte di Pasqua del 387 poté vedere Agostino, nel frattempo trasferitosi a Milano, battezzato insieme a tutti i familiari, ormai cristiano convinto profondamente. Poi Agostino decise di trasferirsi in Africa e dedicarsi alla vita monastica. Nelle «Confessioni» Agostino narra dei colloqui spirituali con sua madre, che si svolgevano nella quiete della casa di Ostia, tappa intermedia verso la destinazione africana, ricevendone conforto ed edificazione; ormai più che madre ella era la sorgente del suo cristianesimo. Monica morì, a seguito di febbri molto alte (forse per malaria), a 56 anni, il 27 agosto del 387. Ai figli disse di seppellire il suo corpo dove volevano, senza darsi pena, ma di ricordarsi di lei, dovunque si trovassero, all'altare del Signore. (Avvenire)

Patronato: Donne sposate, Madri, Vedove

Etimologia: Monica = la solitaria, dal greco

Martirologio Romano: Memoria di santa Monica, che, data ancora giovinetta in matrimonio a Patrizio, generò dei figli, tra i quali Agostino, per la cui conversione molte lacrime versò e molte preghiere rivolse a Dio, e, anelando profondamente al cielo, lasciò questa vita a Ostia nel Lazio, mentre era sulla via del ritorno in Africa.

A Monica si adatta alla perfezione, la definizione che Chiara Lubich fa di Maria nei “Scritti spirituali” (Città Nuova ed.) chiamandola ‘sede della sapienza, madre di casa’; perché Monica fu il tipo di donna che seppe appunto imitare Maria in queste virtù, riuscendo ad instillare la sapienza nel cuore dei figli, donando al mondo quel genio che fu Aurelio Agostino, vescovo e Dottore della Chiesa.

Nacque a Tagaste, antica città della Numidia, nel 332 in una famiglia di buone condizioni economiche e profondamente cristiana; contrariamente al costume del tempo, le fu permesso di studiare e lei ne approfittò per leggere la Sacra Scrittura e meditarla.

Nel pieno della giovinezza fu data in sposa a Patrizio, un modesto proprietario di Tagaste, membro del Consiglio Municipale, non ancora cristiano, buono ed affettuoso ma facile all’ira ed autoritario.

Per il suo carattere, pur amando intensamente Monica, non le risparmiò asprezze e infedeltà; tuttavia Monica riuscì a vincere, con la bontà e la mansuetudine, sia il caratteraccio del marito, sia i pettegolezzi delle ancelle, sia la suscettibilità della suocera.

A 22 anni le nacque il primogenito Agostino, in seguito nascerà un secondo figlio, Navigio ed una figlia di cui s’ignora il nome, ma si sa che si sposò, poi rimasta vedova divenne la badessa del monastero femminile di Ippona.

Le notizie che riportiamo sono tratte dal grande libro, sempre attuale e ricercato anche nei nostri tempi, le “Confessioni”, scritto dal figlio Agostino, che divenne così anche il suo autorevole biografo. Da buona madre diede a tutti con efficacia, una profonda educazione cristiana; dice s. Agostino che egli bevve il nome di Gesù con il latte materno; il bambino appena nato fu iscritto fra i catecumeni, anche se secondo l’usanza del tempo non fu battezzato, in attesa di un’età più adulta; crebbe con l’insegnamento materno della religione cristiana, i cui principi saranno impressi nel suo animo, anche quando era in preda all’errore.

Monica aveva tanto pregato per il marito affinché si ammansisse ed ebbe la consolazione, un anno prima che morisse, di vederlo diventare catecumeno e poi battezzato sul letto di morte nel 369.

Monica aveva 39 anni e dové prendere in mano la direzione della casa e l’amministrazione dei beni, ma la sua preoccupazione maggiore era il figlio Agostino, che se da piccolo era stato un bravo ragazzo, da giovane correva in modo sfrenato dietro i piaceri del mondo, mettendo in dubbio persino la fede cristiana, così radicata in lui dall’infanzia; anzi egli aveva tentato, ma senza successo, di convincere la madre ad abbandonare il cristianesimo per il manicheismo, riuscendoci poi con il fratello Navigio.

Il Manicheismo era una religione orientale fondata nel III secolo d.C. da Mani, che fondeva elementi del cristianesimo e della religione di Zoroastro, suo principio fondamentale era il dualismo, cioè l’opposizione continua di due principi egualmente divini, uno buono e uno cattivo, che dominano il mondo e anche l’animo dell’uomo.

Le vicende della vita di Monica sono strettamente legate a quelle di Agostino, così come le racconta lui stesso; lei rimasta a Tagaste continuò a seguire con trepidazione e con le preghiere il figlio, trasferitosi a Cartagine per gli studi, e che contemporaneamente si dava alla bella vita, convivendo poi con un’ancella cartaginese, dalla quale nel 372, ebbe anche un figlio, Adeodato.

Dopo aver tentato tutti i mezzi per riportarlo sulla buona strada, Monica per ultimo gli proibì di ritornare nella sua casa. Pur amando profondamente sua madre, Agostino non si sentì di cambiare vita, ed essendo terminati con successo gli studi a Cartagine, decise di spostarsi con tutta la famiglia a Roma, capitale dell’impero, di cui la Numidia era una provincia; anche Monica decise di seguirlo, ma lui con uno stratagemma la lasciò a terra a Cartagine, mentre s’imbarcavano per Roma.

Quella notte Monica la passò in lagrime sulla tomba di s. Cipriano; pur essendo stata ingannata, ella non si arrese ed eroicamente continuò la sua opera per la conversione del figlio; nel 385 s’imbarcò anche lei e lo raggiunse a Milano, dove nel frattempo Agostino, disgustato dall’agire contraddittorio dei manichei di Roma, si era trasferito per ricoprire la cattedra di retorica.

Qui Monica ebbe la consolazione di vederlo frequentare la scuola di s. Ambrogio, vescovo di Milano e poi il prepararsi al battesimo con tutta la famiglia, compreso il fratello Navigio e l’amico Alipio; dunque le sue preghiere erano state esaudite; il vescovo di Tagaste le aveva detto: “È impossibile che un figlio di tante lagrime vada perduto”.

 Restò al fianco del figlio consigliandolo nei suoi dubbi e infine, nella notte di Pasqua del 387, poté vederlo battezzato insieme a tutti i familiari; ormai cristiano convinto profondamente, Agostino non poteva rimanere nella situazione coniugale esistente; secondo la legge romana, egli non poteva sposare la sua ancella convivente, perché di ceto inferiore e alla fine con il consiglio di Monica, ormai anziana e desiderosa di una sistemazione del figlio, si decise di rimandare, con il suo consenso, l’ancella in Africa, mentre Agostino avrebbe provveduto per lei e per il figlio Adeodato, rimasto con lui a Milano.

A questo punto Monica pensava di poter trovare una sposa cristiana adatta al ruolo, ma Agostino, con sua grande e gradita sorpresa, decise di non sposarsi più, ma di ritornare anche lui in Africa per vivere una vita monastica, anzi fondando un monastero.

Ci fu un periodo di riflessione, fatto in un ritiro a Cassiciaco presso Milano, con i suoi familiari ed amici, discutendo di filosofia e cose spirituali, sempre presente Monica, la quale partecipava con sapienza ai discorsi, al punto che il figlio volle trascrivere nei suoi scritti le parole sapienti della madre, con gran meraviglia di tutti, perché alle donne non era permesso interloquire.

 Presa la decisione, partirono insieme con il resto della famiglia, lasciando Milano e diretti a Roma, poi ad Ostia Tiberina, dove affittarono un alloggio, in attesa di una nave in partenza per l’Africa.

Nelle sue ‘Confessioni,’ Agostino narra dei colloqui spirituali con sua madre, che si svolgevano nella quiete della casa di Ostia, ricevendone conforto ed edificazione; ormai più che madre ella era la sorgente del suo cristianesimo; Monica però gli disse anche che non provava più attrattiva per questo mondo, l’unica cosa che desiderava era che il figlio divenisse cristiano, ciò era avvenuto, ma non solo, lo vedeva impegnato verso una vita addirittura di consacrato al servizio di Dio, quindi poteva morire contenta.

Nel giro di cinque-sei giorni, si mise a letto con la febbre, perdendo a volte anche la conoscenza; ai figli costernati, disse di seppellire quel suo corpo dove volevano, senza darsi pena, ma di ricordarsi di lei, dovunque si trovassero, all’altare del Signore. Agostino con le lagrime agli occhi le dava il suo affetto, ripetendo “Tu mi hai generato due volte”.

La malattia (forse malaria) durò nove giorni e il 27 agosto del 387, Monica morì a 56 anni. Donna di grande intuizione e di straordinarie virtù naturali e soprannaturali, si ammirano in lei una particolare forza d’animo, un’acuta intelligenza, una grande sensibilità, raggiungendo nelle riunioni di Cassiciaco l’apice della filosofia.

Rispettosa e paziente con tutti, resisté solo al figlio tanto amato, che voleva condurla al manicheismo; era spesso sostenuta da visioni, che con sicuro istinto, sapeva distinguere quelle celesti da quelle di pura fantasia.

Il suo corpo rimase per secoli, venerato nella chiesa di S. Aurea di Ostia, fino al 9 aprile del 1430, quando le sue reliquie furono traslate a Roma nella chiesa di S. Trifone, oggi di S. Agostino, poste in un artistico sarcofago, scolpito da Isaia da Pisa, sempre nel sec. XV.

Santa Monica, considerata modello e patrona delle madri cristiane, è molto venerata; il suo nome è fra i più diffusi fra le donne. La sua festa si celebra il 27 agosto, il giorno prima di quella del suo grande figlio il vescovo di Ippona s. Agostino, che per una singolare coincidenza, morì il 28 agosto 430.

Autore: Antonio Borrelli

Beata Francesca Pinzokere Martire

 m. 1627

Emblema: Palma

 

Si conosce poco della sua vita. Nata in Giappone, entrò nel Terz'Ordine di San Domenico. Vedova di santa vita, fu accusata di aver dato ospitalità ai missionari domenicani e perciò condannata a essere arsa viva. Ricevette, così, la palma del martirio a Nagasaki il 17 agosto 1627, insieme ad altri terziari e terziarie giapponesi, accusati di collaborare con i padri domenicani nella predicazione e nella conversione dei Giapponesi.

Fonte:Convento San Domenico, Bologna         

 

Santi Marcellino, Mannea e compagni Sposi e martiri

+ Costanza, Romania, IV secolo

Martirologio Romano: A Costanza in Scizia, nell’odierna Romania, santi martiri Marcellino, tribuno, e Mannea, coniugi, e Giovanni, loro figlio, Serapione, chierico, e Pietro, soldato.

 

Il gruppo di cinque santi martiri festeggiato in data odierna è capeggiato dai coniugi Marcellino e Mannea, che patirono il supplizio con il figlio Giovanni, il sacerdote Serapione ed il soldato Pietro presso l’antica Tomi in Mesia, odierna Costanza in Romania, sulle rive del Mar Nero. Questa è la versione accreditata dall’ultima versione del Martyrolgium Romanum che li commemora appunto al 27 agosto.

Antiche fonti agiografiche vogliono che ben diciassette membri della comunità cristiana, probabilmente della città di Ossirinco, vennero denunciati al governatore dei tebaidi egiziani, essendosi opposti al decreto imperiale che imponeva loro di sacrificare agli idoli.

I cristiani oggetto di denuncia furono il tribuno Marcellino, sua moglie Mannea e due loro figli, un vescovo e tre chierici, un soldato, sette altri laici ed una donna. Tutti furono condotti in catene dinnanzi al governatore a Tomi. Questi tentò di persuaderli ad obbedire alla legge, ma al loro rifiuto vennero condannati ad essere gettati in pasto alle fiere nell’arena. Il governatore tentò un ultima volta di salvare loro la vita domandando: “Non vi vergognate di onorare un uomo messo a morte e seppellito centinaia di anni fa per ordine di Ponzio Pilato?”. Questa provocazione non ebbe però alcun effetto sui condannati.

Secondo l’autore dei loro Atti il vescovo, Melezio, pronunziò una professione di fede nella divinità di Gesù Cristo, chiaramente ispirata alle definizioni dogmatiche emanate dal concilio di Nicea del 325. Infine gli intrepidi cristiani vennero decapitati perché, come vuole la leggenda, quando le fiere vennero liberate non li vollero toccare ed anche il fuoco non riuscì a bruciarli.

Marcellino e Mannea non sono che una della miriade di coppie di sposi che nella storia dell’umanità hanno scalato le vette della santità, anche se spesso si tratta di casi poco noti al grande pubblico.

Autore: Fabio Arduino

 

 

28 AGOSTO

 Anche oggi abbiamo una giornata ricchissima. Da Sant'Agostino, che ebbe una compagna per 14 anni ed un figlio, ma anche ai due santi martiri spagnoli ed infine alla bellissima storia di Santa Gioacchina e di suo marito.

Sant'Agostino Vescovo e dottore della Chiesa

Tagaste (Numidia), 13 novembre 354 – Ippona (Africa), 28 agosto 430

Sant'Agostino nasce in Africa a Tagaste, nella Numidia - attualmente Souk-Ahras in Algeria - il 13 novembre 354 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Dalla madre riceve un'educazione cristiana, ma dopo aver letto l'Ortensio di Cicerone abbraccia la filosofia aderendo al manicheismo. Risale al 387 il  viaggio a Milano, città in cui conosce sant'Ambrogio. L'incontro si rivela importante per il cammino di fede di Agostino: è da Ambrogio che riceve il battesimo. Successivamente ritorna in Africa con il desiderio di creare una comunità di monaci; dopo la morte della madre si reca a Ippona, dove viene ordinato sacerdote e vescovo. Le sue opere teologiche, mistiche, filosofiche e polemiche - quest'ultime riflettono l'intensa lotta che Agostino intraprende contro le eresie, a cui dedica parte della sua vita - sono tutt'ora studiate. Agostino per il suo pensiero, racchiuso in testi come «Confessioni» o «Città di Dio», ha meritato il titolo di Dottore della Chiesa. Mentre Ippona è assediata dai Vandali, nel 429 il santo si ammala gravemente. Muore il 28 agosto del 430 all'età di 76 anni. (Avvenire)

Patronato: Teologi, Stampatori

Etimologia: Agostino = piccolo venerabile, dal latino

Emblema: Bastone pastorale, Libro, Cuore di fuoco

Martirologio Romano: Memoria di sant’Agostino, vescovo e insigne dottore della Chiesa: convertito alla fede cattolica dopo una adolescenza inquieta nei princípi e nei costumi, fu battezzato a Milano da sant’Ambrogio e, tornato in patria, condusse con alcuni amici vita ascetica, dedita a Dio e allo studio delle Scritture. Eletto poi vescovo di Ippona in Africa, nell’odierna Algeria, fu per trentaquattro anni maestro del suo gregge, che istruì con sermoni e numerosi scritti, con i quali combatté anche strenuamente contro gli errori del suo tempo o espose con sapienza la retta fede.

 

Agostino è uno degli autori di testi teologici, mistici, filosofici, esegetici, ancora oggi molto studiato e citato; egli è uno dei Dottori della Chiesa come ponte fra l’Africa e l’Europa; il suo libro le “Confessioni” è ancora oggi ricercato, ristampato, letto e meditato.

“Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo…. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace”; così scrive Agostino Aurelio nelle “Confessioni”, perché la sua vita fu proprio così in due fasi: prima l’ansia inquieta di chi, cercando la strada, commette molti errori; poi imbroccata la via, sente il desiderio ardente di arrivare alla meta per abbracciare l’amato.

Agostino Aurelio nacque a Tagaste nella Numidia in Africa il 13 novembre 354 da una famiglia di classe media, di piccoli proprietari terrieri, il padre Patrizio era pagano, mentre la madre Monica, che aveva avuto tre figli, dei quali Agostino era il primogenito, era invece cristiana; fu lei a dargli un’educazione religiosa ma senza battezzarlo, come si usava allora, volendo attendere l’età matura.

Ebbe un’infanzia molto vivace, ma non certamente piena di peccati, come farebbe pensare una sua frase scritta nelle “Confessioni” dove si dichiara gran peccatore fin da piccolo. I  peccati veri cominciarono più tardi; dopo i primi studi a Tagaste e poi nella vicina Madaura, si recò a Cartagine nel 371, con l’aiuto di un facoltoso signore del luogo di nome Romaniano; Agostino aveva 16 anni e viveva la sua adolescenza in modo molto vivace ed esuberante e mentre frequentava la scuola di un retore, cominciò a convivere con una ragazza cartaginese, che gli diede nel 372, anche un figlio, Adeodato.

Questa relazione sembra che sia durata 14 anni, quando nacque inaspettato il figlio; Agostino fu costretto, come si suol dire, a darsi una regolata, riportando la sua condotta inconcludente e dispersiva, su una più retta strada, ed a concentrarsi negli studi, per i quali si trovava a Cartagine.

Le lagrime della madre Monica, cominciavano ad avere un effetto positivo; fu in quegli anni che maturò la sua prima vocazione di filosofo, grazie alla lettura di un libro di Cicerone, l’”Ortensio” che l’aveva particolarmente colpito, perché l’autore latino affermava, come soltanto la filosofia aiutasse la volontà ad allontanarsi dal male e ad esercitare la virtù.

Purtroppo la lettura della Sacra Scrittura non diceva niente alla sua mente razionalistica e la religione professata dalla madre gli sembrava ora “una superstizione puerile”, quindi cercò la verità nel manicheismo.

 Il Manicheismo era una religione orientale fondata nel III secolo d.C. da Mani, che fondeva elementi del cristianesimo e della religione di Zoroastro, suo principio fondamentale era il dualismo, cioè l’opposizione continua di due principi egualmente divini, uno buono e uno cattivo, che dominano il mondo e anche l’animo dell’uomo.

Ultimati gli studi, tornò nel 374 a Tagaste, dove con l’aiuto del suo benefattore Romaniano, aprì una scuola di grammatica e retorica, e fu anche ospitato nella sua casa con tutta la famiglia, perché la madre Monica aveva preferito separarsi da Agostino, non condividendo le sue scelte religiose; solo più tardi lo riammise nella sua casa, avendo avuto un sogno premonitore, sul suo ritorno alla fede cristiana.

Dopo due anni nel 376, decise di lasciare il piccolo paese di Tagaste e ritornare a Cartagine e sempre con l’aiuto dell’amico Romaniano, che egli aveva convertito al manicheismo, aprì anche qui una scuola, dove insegnò per sette anni, purtroppo con alunni poco disciplinati.

Agostino però tra i manichei non trovò mai la risposta certa al suo desiderio di verità e dopo un incontro con un loro vescovo, Fausto, avvenuto nel 382 a Cartagine, che avrebbe dovuto fugare ogni dubbio, ne uscì non convinto e quindi prese ad allontanarsi dal manicheismo.

Desideroso di nuove esperienze e stanco dell’indisciplina degli alunni cartaginesi, Agostino resistendo alle preghiere dell’amata madre, che voleva trattenerlo in Africa, decise di trasferirsi a Roma, capitale dell’impero, con tutta la famiglia.

 A Roma, con l’aiuto dei manichei, aprì una scuola, ma non fu a suo agio, gli studenti romani, furbescamente, dopo aver ascoltate con attenzione le sue lezioni, sparivano al momento di pagare il pattuito compenso.

Subì una malattia gravissima che lo condusse quasi alla morte, nel contempo poté constatare che i manichei romani, se in pubblico ostentavano una condotta irreprensibile e casta, nel privato vivevano da dissoluti; disgustato se ne allontanò per sempre.

Nel 384 riuscì ad ottenere, con l’appoggio del prefetto di Roma, Quinto Aurelio Simmaco, la cattedra vacante di retorica a Milano, dove si trasferì, raggiunto nel 385, inaspettatamente dalla madre Monica, la quale conscia del travaglio interiore del figlio, gli fu accanto con la preghiera e con le lagrime, senza imporgli nulla, ma bensì come un angelo protettore.

E Milano fu la tappa decisiva della sua conversione; qui ebbe l’opportunità di ascoltare i sermoni di s. Ambrogio che teneva regolarmente in cattedrale, ma se le sue parole si scolpivano nel cuore di Agostino, fu la frequentazione con un anziano sacerdote, san Simpliciano, che aveva preparato s. Ambrogio all’episcopato, a dargli l’ispirazione giusta; il quale con fine intuito lo indirizzò a leggere i neoplatonici, perché i loro scritti suggerivano “in tutti i modi l’idea di Dio e del suo Verbo”.

 Un successivo incontro con s. Ambrogio, procuratogli dalla madre, segnò un altro passo verso il battesimo; si ipotizza che sia stato convinto da Monica a seguire il consiglio dell’apostolo Paolo, sulla castità perfetta, e che sia stato convinto pure a lasciare la moglie, la quale secondo la legge romana, essendo di classe inferiore, era praticamente una concubina, rimandandola in Africa e tenendo presso di sé il figlio Adeodato (ci riesce difficile ai nostri tempi comprendere questi atteggiamenti, così usuali per allora).

A casa di un amico Ponticiano, questi gli aveva parlato della vita casta dei monaci e di s. Antonio abate, dandogli anche il libro delle Lettere di S. Paolo; ritornato a casa sua, Agostino disorientato si appartò nel giardino, dando sfogo ad un pianto angosciato e mentre piangeva, avvertì una voce che gli diceva ”Tolle, lege, tolle, lege” (prendi e leggi), per cui aprì a caso il libro delle Lettere di S. Paolo e lesse un brano: “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rom. 13, 13-14).

Dopo qualche settimana ancora d’insegnamento di retorica, Agostino lasciò tutto, ritirandosi insieme alla madre, il figlio ed alcuni amici, ad una trentina di km. da Milano, a Cassiciaco, in  meditazione e in conversazioni filosofiche e spirituali; volle sempre presente la madre, perché partecipasse con le sue parole sapienti.

Nella Quaresima del 386 ritornarono a Milano per una preparazione specifica al Battesimo, che Agostino, il figlio Adeodato e l’amico Alipio ricevettero nella notte del sabato santo, dalle mani di s. Ambrogio.

Intenzionato a creare una Comunità di monaci in Africa, decise di ritornare nella sua patria e nell’attesa della nave, la madre Monica improvvisamente si ammalò di una febbre maligna (forse malaria) e il 27 agosto del 387 morì a 56 anni. Il suo corpo trasferito a Roma si venera nella chiesa di S. Agostino, essa è considerata il modello e la patrona delle madri cristiane.

Dopo qualche mese trascorso a Roma per approfondire la sua conoscenza sui monasteri e le tradizioni della Chiesa, nel 388 ritornò a Tagaste, dove vendette i suoi pochi beni, distribuendone il ricavato ai poveri e ritiratosi con alcuni amici e discepoli, fondò una piccola comunità, dove i beni erano in comune proprietà.

Ma dopo un po’ l’affollarsi continuo dei concittadini, per chiedere consigli ed aiuti, disturbava il dovuto raccoglimento, fu necessario trovare un altro posto e Agostino lo cercò presso Ippona.

Trovatosi per caso nella basilica locale, in cui il vescovo Valerio, stava proponendo ai fedeli di consacrare un sacerdote che potesse aiutarlo, specie nella predicazione; accortasi della sua presenza, i fedeli presero a gridare: “Agostino prete!” allora si dava molto valore alla volontà del popolo, considerata volontà di Dio e nonostante che cercasse di rifiutare, perché non era questa la strada voluta, Agostino fu costretto ad accettare.

La città di Ippona ci guadagnò molto, la sua opera fu fecondissima, per prima cosa chiese al vescovo di trasferire il suo monastero ad Ippona, per continuare la sua scelta di vita, che in seguito divenne un seminario fonte di preti e vescovi africani.

L’iniziativa agostiniana gettava le basi del rinnovamento dei costumi del clero, egli pensava: “Il sacerdozio è cosa tanto grande che appena un buon monaco, può darci un buon chierico”. Scrisse anche una Regola, che poi nel IX secolo venne adottata dalla Comunità dei Canonici Regolari o Agostiniani.

Il vescovo Valerio nel timore che Agostino venisse spostato in altra sede, convinse il popolo e il primate della Numidia, Megalio di Calama, a consacrarlo vescovo coadiutore di  Ippona; nel 397 morto Valerio, egli gli successe come titolare.

Dovette lasciare il monastero e intraprendere la sua intensa attività di pastore di anime, che svolse egregiamente, tanto che la sua fama di vescovo illuminato si diffuse in tutte le Chiese Africane.

Nel contempo scriveva le sue opere che abbracciano tutto il sapere ideologico e sono numerose, vanno dalle filosofiche alle apologetiche, dalle dogmatiche alle morali e pastorali, dalle bibliche alle polemiche. Queste ultime riflettono l’intensa e ardente battaglia che Agostino intraprese contro le eresie che funestavano l’unità della Chiesa in quei tempi: Il Manicheismo che conosceva bene, il Donatismo sorto ad opera del vescovo Donato e il Pelagianesimo propugnato dal monaco bretone Pelagio.

Egli fu maestro indiscusso nel confutare queste eresie e i vari movimenti che ad esse si rifacevano; i suoi interventi non solo illuminarono i pastori di anime dell’epoca, ma determinarono anche per il futuro, l’orientamento della teologia cattolica in questo campo. La sua dottrina e teologia è così vasta che pur volendo solo accennarla, occorrerebbe il doppio dello spazio concesso a questa scheda, per forza sintetica; il suo pensiero per millenni ormai è oggetto di studio per la formazione cristiana, le tante sue opere, dalle “Confessioni” fino alla “Città di Dio”, gli hanno meritato il titolo di Dottore della Chiesa.

Nel 429 si ammalò gravemente, mentre Ippona era assediata da tre mesi dai Vandali comandati da Genserico († 477), dopo che avevano portato morte e distruzione dovunque; il santo vescovo ebbe l’impressione della prossima fine del mondo; morì il 28 agosto del 430 a 76 anni. Il suo corpo sottratto ai Vandali durante l’incendio e distruzione di Ippona, venne trasportato poi a Cagliari dal vescovo Fulgenzio di Ruspe, verso il 508-517 ca., insieme alle reliquie di altri vescovi africani.

Verso il 725 il suo corpo fu di nuovo traslato a Pavia, nella Chiesa di S. Pietro in Ciel d’Oro, non lontano dai luoghi della sua conversione, ad opera del pio re longobardo Liutprando († 744), che l’aveva riscattato dai saraceni della Sardegna.

Autore: Antonio Borrelli

 

Beati Giovanni Battista Faubel Cano e Arturo Ros Montalt Padri di famiglia, martiri

 + 28 agosto 1936

Juan Bautista Faubel Cano nacque a Liria (Valencia) il 3 gennaio 1889 e fu battezzato nella chiesa parrocchiale dell’Assunzione di Nostra Signora. Pirotecnico, molto apprezzato e stimato, a partire dalla sua giovinezza visse con ardore il suo impegno apostolico nell’Azione Cattolica, distinguendosi per la sua carità con i bisognosi. Nel 1914 si sposò con la sig.na Patrocinio Olba Martínez dalla quale ebbe tre figli. Nel 1931, all’inizio della II Repubblica spagnola, si preoccupò della formazione delle Scuole Cattoliche. Mai occultò il crocifisso a casa sua e affermò: “Se Dio ha bisogno del mio sangue, non posso negarlo a Lui”. Imprigionato e torturato in odium fidei il 6 agosto 1936, subì il martirio all’alba del 28 agosto 1936, al grido di: “Viva Cristo Re!”.

 Arturo Ros Montalt, fedele laico, nacque il 26 ottobre 1901 a Vinalesa (Valencia), fu battezzato il 2 novembre 1901 e cresimato il 6 ottobre 1910 nella chiesa parrocchiale di San Honorato, dove il 26 novembre 1927 si sposò con la sig.na Maria Llopis Sirer. Nacquero 6 figli, di cui una religiosa e un sacerdote. Di famiglia contadina, giovanissimo aiutò suo padre nel lavoro quotidiano. Molto devoto e attivo nel campo sociale prese la guida del Sindacato cattolico durante la II Repubblica. Fondò il centro di Azione Cattolica a Vinalesa e una scuola parrocchiale quando fu abolito l’insegnamento della religione nelle scuole fu soprannominato “il santo”. Nella persecuzione offrì la sua vita a Dio e affermò di essere a disposizione della volontà divina. Imprigionato e torturato all’alba del 28 agosto 1936 lo condussero al martirio insieme ad altri dieci, i quali furono uccisi alla sua presenza mentre lui fu gettato vivo in un fornace di calce.

Beatificati l’11 marzo 2001 da Giovanni Paolo II con altri 231 martiri della Guerra Civile Spagnola.

Martirologio Romano: Nel territorio di Valencia sempre in Spagna, beati martiri Giovanni Battista Faubel Cano e Arturo Ros Montalt, che, padri di famiglia, durante la persecuzione contro la Chiesa ricevettero dagli uomini la morte e da Dio la vita eterna.

 

Santa Gioacchina De Vedruna Vedova e fondatrice

 Barcellona, Spagna, 16 aprile 1783 - Barcellona, Spagna, 28 agosto 1854

Nacque il 16 aprile 1783 a Barcellona in Spagna. Sposò nel 1799 Teodoro de Mas, del quale restò vedova nel 1816. Allevò con cura nove figli. Nel 1826, guidata dallo Spirito di Dio, fondò la Congregazione delle Carmelitane della Carità che diffuse in tutta la Catalogna, aprendo numerose case per l'assistenza agli infermi e per l'opera di prevenzione e recupero delle classi più esposte alle insidie della miseria e dell'ignoranza. Innamorata del mistero trinitario, da esso trasse le caratteristiche della sua spiritualità: preghiera, mortificazione, distacco, umiltà e carità. Morì a Vich il 28 agosto 1854. Fu beatificata il 19 maggio 1940 e canonizzata il 12 aprile 1959.

L’Ordine Carmelitano celebra la sua festa il 22 maggio.

Martirologio Romano: A Barcellona in Spagna, santa Gioacchina de Vedruna, che, madre di famiglia, educò piamente nove figli e, rimasta vedova, fondò l’Istituto delle Carmelitane della Carità, sopportando serenamente ogni genere di sofferenze, finché morì colpita da colera.

 

La sua, fu una vita paragonabile ad una strada dritta e grande, che per necessità occorre lasciare per imboccare una secondaria e ritornare poi sulla prima dopo un certo percorso.

Figlia di Lorenzo De Vedruna e Teresa Vidal, genitori di genuina fede cristiana, Gioacchina nacque a Barcellona il 16 aprile 1783 e battezzata nello stesso giorno.

Già dalla fanciullezza si sentì attratta dall’amore di Dio, al punto che la madre gli domandava come facesse a stare così lungamente raccolta in preghiera e lei rispose che tutto le parlava di Dio, gli spilli del merletto a tombolo, le ricordavano le spine della corona di Cristo crocifisso e al quale desiderava portare consolazione con piccoli sacrifici; così il filo da cucire le ricordava le corde con cui Gesù fu legato alla colonna e le erbacce delle aiuole per lei rappresentavano i propri difetti e mancanze da sradicare.

Con questi sentimenti così profondi in una bambina, a nove anni fece la Prima Comunione e a dodici decise di consacrarsi al Signore tra le Carmelitane di clausura di Barcellona, ma per la sua giovane età non fu accettata; crebbe negli anni successivi con questo ideale, che sembrava ormai la via principale della sua vita.

A sedici anni però venne chiesta in sposa da Teodoro De Mas, giovane che pure lui aveva sentito forte il richiamo ad una vita religiosa, ma ostacolato dalla volontà dei genitori, essendo il primogenito e l’erede di un nobile casato.

 Gioacchina dopo aver avuto dal suo confessore, la rassicurazione che questa era la volontà di Dio, accettò, sposandosi il 24 marzo 1799 con Teodoro. La perfetta affinità di queste due anime, trasformò la loro casa in un’oasi di pace e di concordia; la loro giornata cominciava con l’andare entrambi in chiesa e si chiudeva la sera con la recita del rosario, a cui si unì con gli anni, il coro dei loro nove figli, cresciuti con amore e incoraggiati nella pratica delle virtù, con il loro encomiabile esempio.

Poi dal 1803 al 1813 la Spagna subì il dominio francese di Napoleone Bonaparte; in quest’arco di tempo il popolo spagnolo si ribellò con le armi alla conquista ed anche Teodoro De Mas, discendente da valorosi guerrieri, si arruolò volontario in difesa della Patria.

Fu coinvolto anche nell’assedio di un castello presso Vich, dove oppose con un gruppo di patrioti una strenua difesa e che i francesi non riuscirono ad espugnare; fu questo un periodo d’intensa sofferenza per Gioacchina De Vedruna, in ansia per la vita del marito, le preoccupazioni per i figli e la grande povertà in cui erano precipitati.

Ma nulla riuscì a scalfire la sua sconfinata fiducia nella Provvidenza e senza mai lamentarsi, non smise mai di pregare. Al ritorno dalla guerra, debilitato nel fisico, Teodoro De Mas morì il 6 marzo 1816; alla giovane vedova, che aveva 33 anni, nello stesso momento guardando il grande Crocifisso appeso nella stanza, le parve che dicesse: “Ora che perdi il tuo sposo terreno, ti scelgo io per mia sposa”.

Rimase a Barcellona ancora per dei mesi per tutelare i diritti dei figli, dalle pretese dei parenti e poi si ritirò a Vich nel feudo ereditato dal marito, chiamato “Manso Escorial”, dove poté meglio occuparsi dei figli e dare più ampio respiro alla propria santificazione.

Come purtroppo era una piaga di quei tempi la mortalità infantile, anche a Gioacchina le morirono tre figli in tenera età, poi quattro abbracciarono lo stato religioso e due si sposarono felicemente. Divenuta più libera dagli impegni familiari, pensò che fosse giunto il momento di realizzare la sua antica aspirazione di entrare in un Ordine religioso di clausura; ma il suo direttore spirituale, il cappuccino di Vich padre Stefano di Olot, la dissuase dicendole che Dio non la voleva in un chiostro, ma come fondatrice di una Congregazione di religiose, dedite alla cura degli ammalati e all’educazione delle fanciulle.

 Ancora una volta Gioacchina chinò il capo acconsentendo, e il 6 gennaio 1826 a 43 anni, fece la professione di “Carmelitana della Carità” nella cappella vescovile di Vich, nelle mani di mons. Paolo di Gesù Corcuera, vescovo della città di Vich, che tanto l’aveva incoraggiata e dato il nome alla nuova Istituzione.

E così il 26 febbraio 1826 insieme a nove giovani aspiranti, dopo aver ascoltato la Messa, si diressero al “Manso Escorial”, dove iniziarono la nuova vita, fatta di pace e di fervore religioso.

Il suo amore materno si trasmise alle sue nuove figlie, divenendo un fattore fondamentale del metodo educativo delle “Carmelitane della Carità”. Superando privazioni e stenti, un po’ alla volta l’Istituzione crebbe diffondendosi con una fitta rete di case per tutta la Catalogna, confermando come lei diceva: “che la Congregazione non era opera sua, ma di Dio”.

Nel settembre del 1849 fu colpita da un primo attacco apoplettico, a cui ne seguirono altri che la resero paralizzata e secondo un suo desiderio chiesto al Signore, “inutile e spregevole” agli occhi degli altri.

Il 28 agosto 1854 a 71 anni, dopo un’ulteriore attacco del male, le si presentarono i sintomi del colera che in quel periodo decimava il popolo e circondata dall’affetto delle sue figlie, si addormentò nel Signore.

Venne beatificata il 19 maggio 1940 da papa Pio XII e successivamente canonizzata il 12 aprile 1959, dal papa beato Giovanni XXIII.

La Chiesa la ricorda il 28 Agosto, mentre i Carmelitani Scalzi ne fanno memoria il 22 Maggio.

Autore: Antonio Borrelli

 

Santi Luigi Martin e Zelia Guerin Genitori di S. Teresa di Gesù Bambino

29 luglio e 28 agosto

Luigi: Bordeaux, 22 agosto 1823 - La Musse, 29 luglio 1894

Zelia: Gandelain, 23 dicembre 1831 - 28 agosto 1877

 

“Galeotto fu il ponte….”, e precisamente quello di Saint Leonard, ad Alençon , perché su di esso si incontrarono i due. E fu amore a prima vista, almeno da parte di lei. Per nessuno dei due, a dire il vero, il matrimonio rappresentava il massimo delle aspirazioni. Lui, a 22 anni, aveva deciso di consacrarsi a Dio nell’ospizio del Gran San Bernardo, ma l’ostacolo insormontabile era lo studio del latino, ed era diventato così un espertissimo orologiaio, anche se i suoi pensieri continuavano ad abitare il cielo ed il suo cuore restava costantemente orientato a Dio. Lei pensava proprio di poter diventare una brava Figlia della Carità, ma la Superiora di Alençon, senza mezzi termini, le aveva detto che quella non era sicuramente la volontà di Dio. Aveva così iniziato a fare la merlettaia, diventando abilissima nel raffinato “punto di Alençon”, anche se il suo capolavoro continuava ad essere il  suo silenzioso intreccio di preghiera e carità. Sul ponte di Saint Leonard, in quell’aprile 1858, sente distintamente che questo, e non altri, è l’uomo che è stato preparato per lei e ne è così convinta che lo sposa appena tre mesi dopo. Lo scorso 12 luglio, 150 anni dopo, Alençon ha ricordato questo matrimonio “tre volte d’oro”, anche perché la Chiesa ha riconosciuto che per Luigi Martin e Zelia Guerin fu proprio il matrimonio la via ordinaria per raggiungere la santità e per questo i ha dichiarati beati, andando così a fare singolare corona alla loro grande figlia, Santa Teresa di Gesù Bambino. All’inizio, per le disposizioni interiori di entrambi e forse anche per il troppo breve fidanzamento, per dieci mesi orientano il loro matrimonio verso la verginità fisica e ci vuole l’accompagnamento di un prudente confessore per indirizzare entrambi verso il dono di sè e per aprirli alla procreazione. Cominciano a nascere i figli, addirittura nove, ma solo cinque di essi raggiungono l’età adulta. Perché Luigi e Maria conoscono le sofferenze e i lutti delle altre famiglie, soprattutto a quel tempo: la morte, in tenerissima età, di tre figli, tra cui i due maschi; l’improvvisa morte di Maria Elena a neppure sei anni; la grave malattia di Teresa, il tifo di Maria e il carattere difficile di Leonia. Tutto accettato con una grande fede e con la consapevolezza ogni volta di aver “allevato un figlio per il cielo”. Delle altre famiglie condividono pure lo sforzo del lavoro quotidiano, Luigi nel suo laboratorio di orologiaio con annessa gioielleria, Zelia nella sua azienda di merletti: lavori che assicurano alla famiglia una certa agiatezza, di cui tuttavia non si fa sfoggio. Perché in casa loro le figlie vengono educate “a non sprecare” e si insegna a fare del “di più” un dono agli altri. La carità concreta è quella che esse imparano, accompagnando mamma o papà di porta in porta, di povero in povero. Messa quotidiana, confessione frequente, adorazioni notturne, attività parrocchiali, scrupolosa osservanza del riposo festivo, ma soprattutto una “liturgia domestica” di cui Luigi e Zelia sono gli indiscussi celebranti,  fatta di pie pratiche sì, ma anche di esami di coscienza sulle ginocchia di mamma e di catechismo imparato in braccio a papà. Zelia muore il 28 agosto 1877, a 45 anni, dopo 19 di matrimonio e con l’ultima nata di appena 4 anni, portata via da un cancro al seno, prima sottovalutato e poi dichiarato in operabile. Luigi muore il 29 luglio 1894 dopo un umiliante declino e causa dell’arteriosclerosi e di una progressiva paralisi. Prima ha, comunque, la gioia di donare tutte le 5 figlie al Signore, quattro nel Carmelo di Lisieux e una tra le Visitandone di Caen. Tra queste, Teresa, morta nel 1897 e proclamata santa nel 1925, che non ha mai avuto coscienza di essere santa, ma sempre ha detto di essere “figlia di santi”, dice spesso: “Il Signore mi ha dato due genitori più degni del cielo che della terra”. Lei, cui la Chiesa riconosce il merito di aver indicato la “piccola via” per raggiungere la santità, confessa candidamente di aver imparato la spiritualità del suo “sentierino” sulle ginocchia di mamma. “Pensando a papà penso naturalmente al buon Dio”, sussurra, mentre alle consorelle confida: “Non avevo che da guardare mio papà per sapere come pregano i santi”. Ora è la Chiesa a “mettere le firma” sulla santità raggiunta da questa coppia: non “malgrado il matrimonio”, ma proprio “grazie al matrimonio”. A portarli sull’altare, l’inspiegabile guarigione, avvenuta nel 2002 a Milano, da una grave malformazione congenita, manco a farlo apposta, di un neonato.

Autore: Gianpiero Pettiti

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Il lavoro o l'educazione dei figli, l'amore coniugale o l'apertura e l'attenzione verso gli altri? Rileggendo la vita di Luigi Martiri e Zelia Guerin, i genitori di santa Teresa di Lisieux, si cerca invano il prevalere di un  aspetto o dell'altro nello stabilire quale abbia contato di più nel cammino verso la santità. Perché la loro vita è piuttosto la testimonianza di una quotidianità vissuta alla presenza di Dio.

Luigi Giuseppe Stanislao Martin nacque a Bordeaux, nella Francia sud-occidentale, il 22 agosto 1823, mentre Zelia Guèrin nacque il 23 dicembre 1831 a Gandelain, sobborgo di Saint Denis sur Sarthon nell’Orne, Francia nord-occidentale.

 

Ebbero nove figli, tra i quali quattro morti in tenera età:

Maria (Suor Maria del Sacro Cuore, carmelitana a Lisieux, 22 febbraio 1860 - 19 gennaio 1940);

Paolina (Suor Agnese di Gesù, carmelitana a Lisieux, 7 settembre 1861 - 28 luglio 1951); Leonia (Suor Francesca Teresa, visitandina, 3 giugno 1863 - 16 giugno 1941);

Elena (1864 - 1870),

Giuseppe Luigi (1866 - 1867),

Giuseppe Giovanni Battista (1867 - 1868);

Celina (Suor Genoveffa del Volto Santo, carmelitana a Lisieux, 28 aprile 1869 - 25 febbraio 1959);

Melania Teresa (16 agosto - 8 ottobre 1870);

Teresa (Suor Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, carmelitana a Lisieux, 2 gennaio 1873 - 30 settembre 1897).

 

Nella loro giovinezza avevano aspirato ambedue alla vita religiosa, formarono poi una famiglia, animati dalla preoccupazione principale del bene spirituale delle figlie. Teresa scriverà: "Avevo soltanto buoni esempi intorno a me, naturalmente volevo seguirli". Creano un ambiente familiare di grande laboriosità e di forte sensibilità di fede, che porterà tutte e cinque le figlie a consacrarsi al Signore nella vita religiosa.

Proprio il dolore e la gioia legate ai figli - tre morti ancora bambini, quattro entrate in convento - attraversano gran parte della vita coniugale di Luigi e Zelia, che entrambi, prima del matrimonio, avevano tentato di intraprendere la vita religiosa. “Quando abbiamo avuto i nostri figlioli - scrive Zelia nel 1877, ormai alla fine della sua vita - le nostre idee sono un po' cambiate: non vivevamo più che per loro, questa era la nostra felicità. Insomma tutto ci riusciva facilissimo, il mondo non ci era più di peso”. Non inganni quel "ci riusciva facilissimo": non si riferisce alla facilità delle circostanze, che invece furono durissime, ma alla certezza che quelle circostanze facevano parte di un disegno buono di Dio. E l'amore tra Luigi e Zelia sembra proprio consistere nell'aiuto a scoprire questa positività.

L'affronto del dolore e delle difficoltà è peraltro uno degli aspetti che rende moderna questa coppia di 150 anni fa: l'educazione dei figli è un altro, con un'attenzione centrata su ciò che formava il loro animo. Come si deduce dalla dichiarazione delle figlie al processo di beatificazione di Teresa: “La nostra mamma vigilava con grande attenzione sull'anima delle sue bambine e la più piccola mancanza non era lasciata senza rimprovero. Era un'educazione buona e affettuosa, ma oculata e accurata”. Analoga immagine si ricava dai ritratti che Teresa fa di suo padre (la mamma morì quando aveva appena 4 anni). A questa  accuratezza e attenzione non creava ostacoli il lavoro. Già, perché i Martiri lavoravano entrambi, e con mestieri impegnativi: un laboratorio di orologiaio Luigi, imprenditrice tessile lei: “Se avessi lavoro tre volte di meno - scrive Zelia alla cognata - ne avrei ancora abbastanza per non stare spesso senza far niente... ~ un lavoro così dolce occuparsi dei propri figlioletti! Se non avessi da fare che quello, mi sembra che sarei la più felice delle donne. Ma bisogna bene che il loro padre e io lavoriamo per procurare loro una dote”.

In ogni caso la vera dote lasciata dai Martiri è la testimonianza della fede, come dimostra santa Teresa quando ringrazia di aver avuto “genitori degni più del Cielo che della Terra”.

Zelia Guèrin muore di cancro il 28 agosto 1877.

 

Luigi Martin muore dopo un periodo di malattia a Saint Sèbastien de Morsent, a La Musse, il 29 luglio 1894.

 

I processi per le Cause di beatificazione e canonizzazione dei Servi di Dio Luigi Martin e di Zelia Guerin, furono istruiti rispettivamente nelle diocesi di Bayeux-Lisieux e di Sées, dal 1957 al 1960, e quindi inviati a Roma.

Queste due cause, condotte poi secondo il metodo storico (singolarmente), sono state presentate alla Congregazione delle Cause dei Santi in un unico studio, sono state discusse dai Teologi e dai Cardinali e Vescovi.

Il 26 marzo 1994 papa Giovanni Paolo II ha proclamato le loro virtù eroiche, e da quel giorno godono nella Chiesa del titolo di "Venerabili".

La loro causa di beatificazione sta sostenendo l'esame della Commissione medica e teologica, che - a poco più di un anno dalla chiusura del processo diocesano a Milano - sta valutando il miracolo attribuito alla coppia, ovvero la vita salvata a Pietro Schilirò, un bambino di Monza nato con una grave malformazione ai polmoni che non lasciava speranza.

La Chiesa li ricorda separatamente: Luigi Martin il 29 Luglio e Zelia Guerin il 28 Agosto, mentre la Diocesi di Bayeux-Lisieux ed i Carmelitani Scalzi ne fanno memoria il 12 Luglio.

Autore: Carmelo Randello - Riccardo Cascioli

 

 

29 AGOSTO

Ricorre oggi anche l'anniversario della lacrimazione della Madonna a Siracusa, avvenuta nel 1953. Ne parlo perché questo evento eccezionale avvenne nella camera da letto di due giovani coniugi, Angelo Iannuso e Antonina Lucia Giusti, sposatisi il 21 marzo del 1953, che abitavano in una modesta casa in Via degli orti di S. Giorgio a Siracusa.

Abbiamo poi una bella serie di santi sposati!

Beato Edmondo Ignazio Rice Fondatore

Westcourt, Callan (Irlanda), 1° giugno 1762 - Mont Sion (Waterford), 29 agosto 1844

Nasce a Westcourt, in Irlanda il 1° giugno 1762. A causa delle leggi restrittive contro i cattolici d'Irlanda, non può avere accesso a carriere in ambito militare, statale o giudiziario. Trova quindi lavoro come apprendista nella società dello zio paterno, affermato esportatore di merci. Edmondo ha successo nel  lavoro, si sposa, ma dopo pochi anni la moglie muore in seguito a un incidente, dando alla luce una figlia disabile. A lei il santo si dedica con amore; rafforza il suo legame con la fede meditando la Parola di Dio, partecipando assiduamente all'Eucarestia e impegnandosi in opere di carità a sostegno dei poveri. Successivamente si dedica all'educazione dei giovani, fondando a Waterford la comunità religiosa dei «Fratelli della Presentazione» nella quale ben presto inizia ad affluire un gran numero ragazzi. Assieme ai suoi confratelli Edmondo dà vita anche alla «Congregazione dei fratelli Cristiani». Dà li a poco sorgeranno monasteri anche in Inghilterra, Gibilterra e Australia. Muore il 29 agosto del 1844 a Mount Sion di Waterford. Oggi le due congregazioni sono presenti in tutti i cinque continenti. Edmondo è beatificato da papa Giovanni Paolo II nel 1996. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Waterford in Irlanda, beato Edmondo Ignazio Rice, che si diede con grande fervore e perseveranza all’istruzione dei fanciulli e dei giovani di condizioni modeste e, per incrementare quest’opera, fondò le Congregazioni dei Fratelli Cristiani e dei Frati della Presentazione.

 

 Il beato Edmondo Ignazio Rice nacque a Watercourt, Callan (Irlanda) il 1° giugno 1762, quarto dei sette figli di Roberto Rice e di Margherita Tierney, la quale aveva già altre due figlie essendo vedova del primo marito.

A causa delle ‘Penal Laws’, leggi restrittive contro i cattolici d’Irlanda, i cui sacerdoti erano perseguitati e non potevano gestire delle scuole, Edmondo fu educato prima nella sua pia e stimata famiglia di agricoltori e poi in una di quelle scuole di campagna quasi clandestine, organizzate dagli irlandesi di allora, molto legati alla fede cattolica e i cui insegnanti si spostavano continuamente da un posto all’altro.

In seguito Edmondo Rice riuscì a frequentare una scuola classica a Kilkenny City; giacché ai cattolici era proibito l’accesso alle carriere militari, statali, giudiziarie, al giovane diciassettenne non restò altro che impiegarsi come apprendista presso lo zio paterno, importante fornitore ed esportatore di merci a Waterford, porto fluviale nel sud-est irlandese.

Collaborando fattivamente con lo zio, diventò un mercante di successo; nel 1787 a 25 anni si sposò, ma la sorte non fu benigna, dopo solo due anni la moglie morì a causa di un incidente, dando alla luce una bambina disabile.

Rimasto vedovo a 27 anni, Edmondo con spirito di fede si prese cura amorevolmente per tutta la vita della piccola Mary; intensificò l’unione con Dio nella meditazione delle Scritture, con l’assidua frequenza ai Sacramenti e alla Messa, dedicandosi alle opere di carità e aiutando i poveri con le sue ricchezze.

In quel periodo di grande fermento per la società irlandese, con il raddoppio della popolazione in sessant’anni, la ribellione delle colonie americane nel 1776, il ritrovato coraggio dei cattolici d’Irlanda nel richiedere parità di diritti con i protestanti e soprattutto la mancanza di educazione della trascurata  gioventù, convinsero Edmondo Rice a lavorare in questo campo essenziale per la società del futuro.

Edmondo aveva conosciuto la Serva di Dio suor ‘Nano’ Nagle (1718-1784), che nel 1778 aveva fondato le ‘Suore della Presentazione’ per l’istruzione e la cura delle fanciulle, e l’aveva aiutata ad aprire una casa a Waterford.

Sul suo esempio dal 1793 si preparò al compito prefisso, raccogliendo i fondi necessari per realizzare l’opera; chiese anche al papa Pio VI il permesso di aprire un nuovo Istituto e con l’incoraggiamento del pontefice e del vescovo di Hussey, fondò in una stalla in disuso una scuola provvisoria, dopo aver venduta l’azienda e sistemata adeguatamente la figlia.

Prese ad abitare al piano superiore, mentre tanti ragazzi affluirono nella scuola, il loro numero ben presto spaventò gli assistenti salariati che lo abbandonarono, così Edmondo dovette affrontare da solo tutto il lavoro; dopo un po’, attratti dal suo esempio vennero altri giovani ed insegnanti a condividerne lo sforzo evangelico e sociale.

Nacque così una comunità religiosa, che aveva come scopo primario, attraverso l’educazione cristiana, di portare i poveri alla consapevolezza della loro dignità e della loro figliolanza divina.

Nel 1806 fu aperta la prima casa religiosa a Waterford dei “Fratelli della Presentazione” chiamati così perché seguivano una regola di vita simile a quella delle ‘Suore della Presentazione’; nel 1808 il vescovo di Waterford ammise Edmondo e i suoi confratelli ai voti religiosi nella Cappella delle Suore, secondo le Regole dell’Ordine della Presentazione, approvate dalla Santa Sede il 3 settembre 1791.

Il nuovo Istituto fu il primo sorto in Irlanda, Edmondo prese il nome di Ignazio e senza aiuti esterni edificò un monastero, detto Mont Sion in Waterford, dove si spostò con la piccola comunità, erigendolo a Casa madre.

Il numero dei confratelli aumentò notevolmente e altre Case furono aperte sia nella provincia di Waterford che in tutta l’Irlanda; nel 1820 erano già dieci e tutte seguivano la Regola delle Suore della Presentazione, perciò autonome e soggette alla giurisdizione dei vescovi locali; alcuni membri però erano inviati a Mont Sion per avere una formazione dallo stesso fondatore.

Intanto fratello Ignazio Rice nel 1817 conobbe i Fratelli delle Scuole Cristiane, fondati da s. Giovanni Battista de la Salle (1651-1719) e chiese alla Santa Sede l’approvazione di una Regola simile anche per il suo Istituto; la lettera di approvazione fu concessa da papa Pio VII il 5 settembre 1820.

Nel gennaio 1822 la maggior parte dei Fratelli della Presentazione, accettò la lettera pontificia dopo vari incontri e discussioni e adottarono la Regola dei Fratelli delle Scuole Cristiane, cambiarono il nome in “Fratelli Cristiani” (Christian Brothers) ed elessero fra’ Ignazio Rice loro Superiore Generale.

Non tutti aderirono, capeggiati da fratel Michele Agostino Riordan, essi rimasero con l’iniziale denominazione e sotto la giurisdizione diocesana e si andò avanti così fino al 1889, quando anche i Fratelli della Presentazione ebbero l’approvazione pontificia.

Edmondo Ignazio Rice poté veder il diffondersi dei suoi Fratelli negli anni seguenti in Irlanda, Inghilterra, Gibilterra e Australia, si dimise nel 1838 da Superiore Generale per l’età e le malattie e morì in fama di santità il 29 agosto 1844 a Mont Sion (Waterford).

I Fratelli delle due Congregazioni, sono oggi presenti in tutti i cinque Continenti, nelle regioni missionarie della Chiesa e fra gli emarginati delle grandi città.

Da ogni parte sono state segnalate centinaia di grazie ricevute per l’intercessione del benefico fondatore, fra’ Edmondo Ignazio Rice che è stato beatificato il 6 ottobre 1996 da papa Giovanni Paolo II; festa il 29 agosto.

Autore: Antonio Borrelli

 

Beato Riccardo Herst Martire

Risultati immagini per BEATO RICCARDO HERSTPreston (Lancaster), sec. XVI - Lancaster, 29 agosto 1628

Etimologia: Riccardo = potente e ricco, dal provenzale

Emblema: Palma

 

La storia delle persecuzioni anticattoliche in Inghilterra, Scozia, Galles, parte dal 1535 e arriva al 1681; il primo a scatenarla fu come è noto il re Enrico VIII, che provocò lo scisma d’Inghilterra con il distacco della Chiesa Anglicana da Roma.

Artefici più o meno cruenti furono oltre Enrico VIII, i suoi successori Edoardo VI (1547-1553), la terribile Elisabetta I, la ‘regina vergine’ († 1603), Giacomo I Stuart, Carlo I, Oliviero Cromwell, Carlo II Stuart.

Morirono in 150 anni di persecuzioni, migliaia di cattolici inglesi appartenenti ad ogni ramo sociale, testimoniando il loro attaccamento alla fede cattolica e al papa e rifiutando i giuramenti di fedeltà al re, nuovo capo della religione di Stato.

Primi a morire come gloriosi martiri, il 4 maggio e il 15 giugno 1535, furono 19 monaci Certosini, impiccati nel tristemente famoso Tyburn di Londra, l’ultima vittima fu l’arcivescovo di Armagh e primate d’Irlanda Oliviero Plunkett, giustiziato a Londra l’11 luglio 1681.

L’odio dei vari nemici del cattolicesimo, dai re ai puritani, dagli avventurieri agli spregevoli ecclesiastici eretici e scismatici, ai calvinisti, portò ad inventare efferati sistemi di tortura e sofferenze per i cattolici arrestati.

In particolare per tutti quei sacerdoti e gesuiti, che dalla Francia e da Roma, arrivavano clandestinamente come missionari in Inghilterra per cercare di riconvertire gli scismatici, per lo più essi erano considerati traditori dello Stato, in quanto inglesi rifugiatosi all’estero e preparati in opportuni Seminari per il rientro.

Tranne rarissime eccezioni come i funzionari di alto rango (Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Margherita Pole) decapitati o uccisi velocemente, tutti gli altri subirono prima della morte, indicibili sofferenze, con interrogatori estenuanti, carcere duro, torture raffinate come “l’eculeo”, la “figlia della Scavinger”, i “guanti di ferro” e dove alla fine li attendeva una morte orribile; infatti essi venivano tutti impiccati, ma qualche attimo prima del soffocamento venivano liberati dal cappio e ancora semicoscienti venivano sventrati.

Dopo di ciò con una bestialità che superava ogni limite umano, i loro corpi venivano squartati ed i poveri tronconi cosparsi di pece, erano appesi alle porte e nelle zone principali della città.

Solo nel 1850 con la restaurazione della Gerarchia Cattolica in Inghilterra e Galles, si poté affrontare la possibilità di una beatificazione dei martiri, perlomeno di quelli il cui martirio era comprovato, nonostante i due-tre secoli trascorsi.

Nel 1874 l’arcivescovo di Westminster inviò a Roma un elenco di 360 nomi con le prove per ognuno di loro.

A partire dal 1886 i martiri a gruppi più o meno numerosi, furono beatificati dai Sommi Pontefici, una quarantina sono stati anche canonizzati nel 1970.

 

Di Riccardo Herst non si sa niente della sua nascita, egli era possidente terriero di Preston nel Lancaster e veniva insidiato dai protestanti per la sua fede cattolica.

Si era al tempo della persecuzione di re Giacomo I Stuart (1566-1625) di fede anglicana; il vescovo di Chester fedele al re, inviò tre suoi uomini per arrestarlo e lo trovarono a lavorare nei campi, ma i suoi contadini li costrinsero alla fuga.

Successe però che uno dei tre nello scappare, cadde e si fratturò una gamba, frattura che nel giro di trenta giorni lo portò alla morte, a questo punto Riccardo Herst fu arrestato con l’accusa di omicidio, fu un puro pretesto perché egli fu scagionato dallo stesso ferito prima di morire; era evidente che il vero motivo dell’arresto era la sua fede cattolica.

Infatti gli venne promessa la libertà se avesse prestato giuramento al re capo della religione di Stato e di mettersi al servizio protestante, ma Riccardo Herst rifiutò energicamente.

Allora per ordine dello sceriffo della contea, fu trascinato con la forza in chiesa per ascoltare il sermone, ma egli si turò le orecchie con le dita e appena poté ritornò alla prigione.

Ci sono pervenute tre sue lettere scritte al direttore spirituale, dove conferma la sua volontà di non cedere al peccato, si offre a Dio pienamente disposto alla sua volontà; chiede che vengano celebrate delle Messe per la sua anima, raccomanda i suoi figli e supplica che vengano pagati i suoi debiti.

Eroica figura di laico cattolico si avviò sereno al patibolo che baciò, con in mano un piccolo crocifisso recitò ad alta voce le preghiere; aiutò il boia a preparare la fune e infine venne impiccato a Lancaster il 29 agosto 1628.

Fu beatificato da papa Pio XI il 15 dicembre 1929 insieme ad altri 106 martiri della persecuzione anglicana.

Autore: Antonio Borrelli

 

Santa Sabina Martire

 Sec. II

Patrizia romana del II secolo, uccisa in spregio alla fede allo stesso modo: decapitata. Nella sua «Passione» si legge che era una nobile pagana, moglie del senatore Valentino, convertitasi al cristianesimo per influenza dell’ancella Serapia. Con lei di notte scendeva nelle catacombe, dove i cristiani si riunivano clandestinamente per sfuggire alle persecuzioni imperiali. Quando Serapia venne catturata e bastonata a morte, anche Sabina venne allo scoperto subendo il martirio intorno all’anno 120. Le reliquie delle due martiri, insieme a quelle di Alessandro, Evenzio e Teodulo si trovano nella basilica di Santa Sabina all’Aventino, fondata nel 425 da Pietro d’Illiria, sui resti di un antico «Titulus Sabinae» (forse la santa, oltre che patrona, ne fu fondatrice e protettrice). San Domenico vi fondò il suo ordine nel 1219. Si può ancora vedere la sua cella, trasformata in cappella. Nel chiostro del convento si può ammirare l’arancio che il santo avrebbe piantato alla fondazione dei Predicatori. Anche uno dei più celebri figli dei Domenicani, san Tommaso, ha insegnato in questo convento. Santa Sabina viene raffigurata con libro, palma e corona. Con questi ultimi due attributi compare in una delle sue prime rappresentazioni (VI secolo) nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. (Avvenire)

Patronato: Avezzano (AQ), Mariana Mantovana (MN)

Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di santa Sabina, la cui basilica costruita sull’Aventino reca il suo venerando nome.

 

Santa Sabina è una martire del II secolo che trova ancor oggi, come per tutti i martiri, luoghi a lei dedicati, dove la si invoca come protettrice. Oltre la Basilica dell’Aventino a Roma, a lei dedicata anche la comunità parrocchiale della Chiesa arcipretale di Trigoso (risalente ai primordi del Cristianesimo in Liguria, quasi certamente del VII sec.) antico borgo nelle vicinanze di Sestri Levante, ridente cittadina sul mare, la invoca e la festeggia come sua Patrona e chiede, con umile e devoto affetto, la sua intercessione sulla parrocchia e sulle famiglie. La implora di ottenere dal Signore il dono della preghiera, della vigilanza, della mortificazione e della fermezza e perseveranza nella fede e nel bene, ad imitazione della Sua Vita che fu segno della totale appartenenza a Dio. A lei dedicato è uno dei cinque altari, in stile barocco genovese.

Possa Santa Sabina indicare a tutti la via della salvezza che troviamo solo in Cristo e nel “martirio quotidiano” che non è necessariamente quello vissuto da Santa Sabina, ma è il saper accettare non solo le nostre debolezze, limiti ed imperfezioni, ma soprattutto quelle di coloro che ci stanno accanto e che spesso vorremmo cambiare a nostro piacimento non cercando tanto il Volere di Dio ma il nostro, possibilmente vivendo una vita comoda e senza problemi. Gesù stesso però ci dice che per essere suoi discepoli bisogna prendere ogni giorno la propria croce e seguirlo.

Autore: Giuliana Brugnoli

 

Risultati immagini per SAN SEBBI RE DELLA SASSONIASan Sebbi Re della Sassonia Orientale

 m. 694 circa

Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, commemorazione di san Sebbo, che, re della Sassonia orientale molto devoto a Dio, lasciato il regno, volle morire vestendo l’abito monastico che aveva a lungo desiderato.

 

San Sebbi (noto anche con le varianti di Sebbe o Sebbo) regnò sulla Sassonia Orientale, regione dell’isola britannica comprendente l’Essex, l’Hertfordshire e la città di Londra. La sua incoronazione sarebbe avvenuta durante l’epidemia di peste che si verificò nell’anno 664.

Seghere, suo collaboratore nel governo, considerando tale tragedia quale segno d’ira da parte degli dèi pagani per la conversione al cristianesimo del re Sebbi, decise con molti altri sudditi di tornare alla religione dei suoi padri.

Dal vicino regno di Mercia giunse allora il vescovo Jaruman, ritenuto “uomo onesto” da San Beda il Venerabile e sostenuto dal re Sebbi, con lo scopo di riconvertirli. Pare che la sua missione si rivelò efficace.

Durante il suo lungo regno, il santo sovrano ebbe modo di dimostrasi governatore saggio e particolarmente devoto, a tal punto da esser considerato dai sui sudditi assai più adatto come vescovo. A lui è tra l’altro attribuita l’edificazione del primitivo monastero di Westminster, non unico caso nella storia della Chiesa in cui un sovrano o un nobile si sia fatto promotore della realizzazione di nuovi edifici religiosi, anche se i casi più celebri in tal senso restano quelli relativi ai santi imperatori Costantino il Grande e Carlo Magno.

Non appena la moglie acconsentì alla separazione, non per gentile concessione bensì per l’aggravarsi delle condizioni di salute del marito, Sebbi poté coronare il suo grande sogno: abdicare dopo trent’anni alla corona e ritirarsi in un monastero. Ricevette così l’abito religioso dal neovescovo di Londra Waldhere, appena succeduto a Sant’Erconvaldo, al quale affidò tutti i suoi beni affinché fossero equamente distribuiti ai poveri.

Non appena ebbe il presentimento che si stesse avvicinando l’ora della sua morte, desiderò essere vegliato dal vescovo e da due suoi servitori, onde evitare che per timore o stanchezza potesse pronunciare o compiere qualcosa di inopportuno.

Sempre nell’ultimo periodo della sua vita si verificò un episodio in parte simile a quanto capitò secondo la Bibbia al patriarca Abramo. Secondo quanto Sebbi ebbe a raccontare, in sogno “gli erano apparsi tre uomini con vesti splendenti. Uno si era seduto davanti al suo giaciglio, mentre i suoi compagni erano rimasti in piedi ed avevano chiesto informazioni sul malato. Il primo uomo disse che la sua anima avrebbe lasciato il corpo senza dolore ed in uno splendore di luce, e che sarebbe morto dopo tre giorni. Entrambe le cose accaddero, secondo quanto era stato annunciato nella visione”.

La morte sopraggiunse dunque verso l’anno 694, probabilmente il 29 agosto. Fu poi seppellito presso il muro settentrionale dell’antica cattedrale di San Paolo. Una leggenda attribuita sempre a San Beda che il sarcofago predisposto per la sua sepoltura, essendo troppo corto, miracolosamente si adattò alla statura del cadavere.

L’introduzione del culto liturgico per San Sebbi è abbastanza recente. L’inserimento del suo nome nel Martirologio Romano avvenne nel secolo XVI ad opera del cardinal Baronio.

Autore: Fabio Arduino

 

 

30 AGOSTO

Santa Margherita Ward Martire in Inghilterra

 Congleton (Cheshire), 1550 ca. - Londra, 30 agosto 1588

Fa parte di un gruppo di 40 martiri inglesi, beatificati da Pio XI il 15 dicembre 1929 e poi canonizzati da Paolo VI il 25 ottobre 1970. Essi morirono negli anni dal 1535 al 1679, al tempo delle persecuzioni contro i cattolici. Margherita Ward nacque a Congleton intorno al 1550, da distinta famiglia. Cattolica, aveva saputo dell'arresto del sacerdote Guglielmo Watson, che era stato sottoposto a tortura. Margherita lo visitò varie volte. Watson era stato già imprigionato una volta ma, in un momento di debolezza per le torture subite, aveva acconsentito a partecipare ad un culto protestante ed era stato liberato: pentitosi, aveva dichiarato di essere cattolico e quindi era finito nuovamente in prigione. Margherita ne favorì la fuga, ma una corda penzolante fece capire che era stato aiutato dalla donna e la Ward venne arrestata. Lei confermò quanto fatto e si rifiutò di rivelare il nascondiglio del fuggitivo, non volle chiedere il perdono alla regina Elisabetta, né aderire al culto protestante. Per questa ragione venne impiccata il 30 agosto 1588. (Avvenire)

Etimologia: Margherita = perla, dal greco e latino

Emblema: Palma

Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, santa Margherita Ward, martire, che, sposata, fu condannata a morte sotto la regina Elisabetta I per avere aiutato un sacerdote e accolse con animo lieto il martirio dell’impiccagione a Tyburn. Nello stesso luogo, subirono insieme a lei il martirio i beati Riccardo Leigh, sacerdote, e i laici Edoardo Shelley e Riccardo Martin, inglesi, Giovanni Roche, irlandese, e Riccardo Lloyd, gallese, il primo perché sacerdote, gli altri per avere dato ospitalità a dei sacerdoti.

 

Margherita Ward fa parte di un gruppo di 40 martiri, beatificati da Pio IX il 15 dicembre 1929 e poi canonizzati da papa Paolo VI il 25 ottobre 1970.

Essi morirono negli anni dal 1535 al 1679, al tempo delle persecuzioni contro i cattolici, scatenate in Inghilterra e Galles, dalla regina Elisabetta I (1533-1603), da Giacomo I (1566-1625) e poi con Carlo I e Carlo II.

Margherita Ward nacque a Congleton nel Cheshire intorno al 1550, in una distintissima famiglia inglese, si sa che negli ultimi anni visse in casa della nobile signora Whitall, della quale era dama di compagnia.

Era di religione cattolica e aveva saputo che era stato arrestato il sacerdote Guglielmo Watson, il quale era sottoposto in carcere a continui sofferenze. Era in corso la persecuzione della sanguinaria Elisabetta I Tudor contro i cattolici e la tortura per gli arrestati era una pratica usuale; Margherita decise di andarlo a visitare varie volte, per aiutarlo e confortarlo con una buona parola.

Il Watson era stato già imprigionato una prima volta, ma poi in un momento di debolezza per le torture subite, aveva acconsentito a partecipare ad un culto protestante e quindi liberato; ma amaramente pentito di questa scelta, aveva pubblicamente ritrattato e dichiarato di essere cattolico, quindi di nuovo imprigionato nel carcere del Bridewell.

Margherita spinse la sua carità, fino a favorire la fuga del Watson dal carcere, ma una corda rimasta penzoloni da una finestra, dopo la fuga alquanto rovinosa del prigioniero, fece capire subito che era stato aiutato dalla visitatrice, pertanto la Ward venne arrestata e condotta davanti al giudice.

La gentildonna non solo confermò in pieno quanto aveva fatto, ma si rifiutò anche di rivelare dove era nascosto il fuggitivo, non volle chiedere il perdono alla regina Elisabetta, né volle aderire al culto protestante, condizioni che le erano state poste per ottenere la liberazione.

Ella era convinta di non avere offesa in alcun modo la sovrana e considerava cosa assolutamente contraria alla sua fede genuina cattolica, l’assistere alle funzioni di un culto eretico.

Venne pertanto condannata alla pena di morte per alto tradimento; immolò la sua vita per la fede cattolica in cui credeva e che non aveva voluto abiurare e da intrepida e giovane eroina, salì il patibolo nel famigerato luogo delle esecuzioni, chiamato Tyburn a Londra, venendo impiccata il 30 agosto 1588.

Suoi compagni di martirio furono nello stesso giorno il sacerdote Riccardo Leigh ed i laici Edoardo Shelley e Riccardo Martin, inglesi; Giovanni Roche irlandese e Riccardo Lloyd del Galles, sacerdoti.

Anch’essi come santa Margherita Ward sono ricordati il 30 agosto.

Autore: Antonio Borrelli

 

Sant'Alessandro Nevskij Granprincipe di Novgorod

 30 agosto e 23 novembre (Chiese Orientali)

Perejaslavl’-Zalesskij, Russia, 30 maggio 1220 – Gorodec, Russia, 14 novembre 1263

Etimologia: Alessandro = protettore di uomini, dal greco

 

Alessandro Nevskij nacque in Russia nel 1220, figlio del Granduca di Vladimir Jaroslav II Vsevolodovic e della principessa Feodosia di Halic. Suo fratello maggiore Feodor Jaroslavic, erede del titolo e dei privilegi, morì precocemente all’età di soli quandici anni ed Alexander si trovò così principe di Novgorod nel 1245. Sposò la principessa Bassa di Potolsk, da cui ebbe quattro figli, di cui l’ultimogenito fu San Danilo di Mosca.

 Nessuno meglio di Alessandro può rappresentare la figura classica del “santo guerriero”, tipologia forse lontana dalla sensibilità contemporanea. Nel 1240 si trovò a dovere respingere un massiccio attacco degli svedesi che avevano invaso il suo principato. In questo frangente, chiamato a raccolta il suo piccolo esercito, si rivolse ai soldati con queste parole: “Dio non è nella forza ma nella verità. Alcuni confidano nei principi, altri nei cavalli, ma noi invocheremo il Signore Dio nostro!”. La notte che precedette lo scontro, sulla riva della Neva, un soldato di nome Filippo ebbe una visione: i santi principi martiri Boris e Gleb, si avvicinavano a bordo di una barca all’accampamento russo. Secondo la tradizione San Boris pronunciò queste parole: “Fratello Gleb, andiamo ad aiutare il nostro pari Alessandro!”. Il giorno successivo Alessandro ed il suo esercito riportarono una storica vittoria sul nemico. Da quel momento Alessandro fu soprannominato “Nevskij”, cioè “della Neva”, luogo della mirabile battaglia.

La tradizione narra una lunga serie di successi e di vittorie che trasformarono il saggio principe Alessandro Nevskij nell’eroe russo più amato e popolare, paladino della Chiesa indigena. Le guerre, le incessanti attività e i lunghi viaggi minarono però la salute di Alessandro. Tornando da un lungo viaggio in oriente e sentendo la morte avvicinarsi, decise allora di vestire l’abito monastico presso il monastero di Gorodec, assumendo il nome di Alessio. Il novello schema-monaco morì il 14 novembre 1263.

Nel 1547 Alessandro Nevskij fu canonizzato dalla Chiesa Ortodossa Russa, che lo commemora il 23 novembre, giorno della sua sepoltura, ed il 30 agosto, giorno della traslazione delle sue reliquie presso la larva a lui dedicata in San Pietroburgo.

Autore: Fabio Arduino

 

 

31 AGOSTO